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The Dark Side Of The Moon Redux di Roger Waters, remake inutile

The Dark Side Of The Moon Redux

Da quando, all’inizio del 2023, Roger Waters ha iniziato a parlare della sua idea di The Dark Side Of The Moon Redux, molti lo hanno criticato. E non avevano ancora sentito il disco.

Ora The Dark Side Of The Moon Redux è uscito e chiunque può farsi un’idea del risultato.
Di The Dark Side Of The Moon è perfino superfluo parlare. L’album si è guadagnato fin da subito lo status di capolavoro quasi intoccabile, figuriamoci nell’anno in cui festeggia il cinquantennale. Siamo di fronte a un’opera irripetibile, tra le poche a mettere d’accordo critica e pubblico.

Un lavoro che raggiunge l’equilibrio tra arte e fruibilità, risultato raggiunto grazie a una struttura tutto sommato semplice, a suoni perfetti e a contenuti complessi e profondi. Sì, può capitare navigando nel mare magno dei social – a volte più simile a una cloaca – di trovare chi cerca in tutti i modi di ridimensionarne la portata. Si tratta, di solito, di provocazioni a basso costo e sicura resa, per chi cerca una manciata di interazioni.

Se The Dark Side Of The Moon è quindi una pietra miliare che non si tocca, altrettanto si potrebbe dire per la figura di Roger Waters. Qui le cose si fanno però più complicate. Già, perché Roger è un artista che non ha mai messo d’accordo tutti, per scelta personale. Le sue posizioni, fin dai tempi dell’esplosione del fenomeno Pink Floyd, sono sempre state piuttosto estreme, frutto di una visione della vita mai pacificata e di una personalità narcisista e megalomane.

Poco male, di grandi artisti con un ego piccolo non se ne sono mai visti.
Dopo la fine dei Pink Floyd, distrutti pezzo per pezzo da Roger fin dalla seconda metà degli anni Settanta, il nostro ha finito per perdere un po’ la bussola. Al netto di alcuni episodi solisti di ottima levatura, forse i lavori migliori del post Pink Floyd anche contando quelli degli altri componenti, Roger non sembra aver mai digerito il fatto che la band non sia finita col suo abbandono.

La sua guerra personale con David Gilmour, specie negli ultimi anni, ha assunto contorni forse poco adatti a un mito come quello dei Pink Floyd. Vedere due signori che viaggiano attorno agli ottanta litigare come adolescenti può far sorridere. Alcuni sono magari conquistati dalla verve e dalla voglia di mettersi in gioco alla sua veneranda età, ma l’efftto ridicolo è sempre in agguato.

The Dark Side Of The Moon Redux, allora.
Roger Waters non è nuovo a reinterpretazioni del vecchio repertorio, specie dal vivo. Suoni rivisitati, contenuti politici piegati in modo a volte forzato alle idee – spesso discutibili – del Waters senile. Una Comfortably Numb rivisitata privandola dell’assolo di chitarra di Gilmour, per dire. Una versione che a molti è parsa più un puerile dispetto all’amico-nemico che un’opera di aggiornamento.

E ora, appunto, The Dark Side Of The Moon Redux.
L’operazione, diciamolo, pare più che altro un’appropriazione del capolavoro del gruppo. Un segnare il territorio un po’ egocentrico, se è vero che il concept dell’album – nessuno lo discute – è di Roger, ma il risultato è dovuto alla perfetta alchimia di suoni della formazione del tempo.

Il problema, insomma, è che Waters con questa operazione ha voluto per l’ennesima volta dimostrare che i Pink Floyd erano solo una sua creatura. L’ironia della sorte, però, ha voluto che il modo scelto per dimostrarlo sortisce l’effetto contrario. The Dark Side Of The Moon Redux scorre infatti, non proprio liscio, mostrando senza pietà che anche un capolavoro, rimasticato e privato della giusta alchimia, non funzione.

Se l’originale era una gioia per le orecchie e un pugno allo stomaco per i contenuti, raggiungendo il miracolo di un’opera d’arte che riempie l’anima di gioia ma fa riflettere su grandi temi, qui il prodigio non si ripete. Si può dire che di The Dark Side Of The Moon rimane solo il pugno nello stomaco. Un pugno che mette al tappeto l’ascoltatore più magnanimo.

The Dark Side Of The Moon Redux suona cupo, angosciante come lo era l’originale ma senza nessuna salvifica luce alla fine del tunnel. È il disco di un vecchio che suona più vecchio di quello di cinquant’anni fa. Certo, le canzoni erano e sono bellissime e non possono che suonare comunque bene, ma la magia è perduta. Dove la chitarra di Gilmour col suo lirismo diceva più di mille parole, arrivano le parti parlate di Waters che nulla aggiungono e sottraggono all’ascoltatore le parti migliori.

Dove le grandi intuizioni del mai troppo rimpianto Richard Wright facevano la storia, ora troviamo lo spoken prolisso e pesante di Roger. Parti dove, al secondo ascolto si va via di tasto skip che è un piacere.

Il disco, ovviamente, si apre con Speak To Me. Lo spoken riprende il testo della scanzonata Free Four, da Obscured By The Clouds. La differenza tra la vecchia Free Four, cantata in modo efficacissimo da Waters, e il triste spoken attuale è difficile persino da commentare. Viene solo da chiedersi “perché”?

Dopo tre minuti si arriva finalmente alla cara, vecchia Breathe. Nulla da dire, la canzone bellissima era e bella rimane, anche se l’incedere è ancora più lento e pesante e la voce di Gilmour, beh, ragazzi, manca quanto la sua chitarra. Stesso discorso per Time, talmente bella da fare sempre la sua figura. I suoni sono rarefatti, la chitarra sostituita da parti liquide d’organo e da un theremin che fa il suo lavoro.

Forse Time è tra i passaggi più riusciti dell’operazione, anche se quel “perché?” continua a perseguitare l’ascoltatore. The Great Gig In The Sky vede al posto della magica voce di Clare Torry un ennesimo spoken di Roger nostro. Stavolta Waters legge uno straccio del carteggio con Donald Hall, amico scrittore a cui restava poco da vivere. Giusto per risollevarsi un po’ dalla cupezza di tutto il progetto.

Si passa alla celebre Money.
Il riff è sempre quello entrato nel mito, l’arrangiamento è sempre minimale e le uniche note di chitarra vengono dalla sei corde acustica, coem per tutto il disco, del fenomenale Jonathan Wilson, qui piuttosto sacrificato. Waters canta con una voce cavernosa che pare quella di Howlin’ Wolf, a suo modo efficace. Purtroppo arriva un altro interminabile intermezzo parlato.

La lunga e lentissima versione di Us And Them è forse il passaggio più riuscito dell’intero lavoro, con preziosi arrangiamenti degli archi e un soffuso tappeto d’organo. I tre pezzi conclusivi non si discostano dal resto dell’album, con Eclipse che chiude in modo piuttosto valido il tutto.

In conclusione, non si può dire che The Dark Side Of The Moon Redux sia un’operazione da condannare in toto o da giudicare non riuscita. Alcuni passaggi sono assai evocativi ma, va detto, soprattutto in virtù di un materiale eccezionale in origine. Roger Waters è un personaggio che ha scelto – o forse non ne ha avuto nemmeno bisogno – di essere polarizzante. O lo ama o lo si odia, o almeno così vorrebbe lui.

Chi scrive, sinceramente, avrebbe preferito che The Dark Side Of The Moon Redux rimanesse nella testa del suo creatore, ma siamo nel campo minato delle opinioni personali. Il disco c’è e, tutto sommato, meglio avere un’opera in più che una in meno, in un certo senso. Se però amate svisceratamente i Pink Floyd, il consiglio è di darci un orecchio, per così dire. Poi, però, tornate ad ascoltare l’originale.

Tanto il tempo non lo riporta indietro né la nostalgia, né una rivisitazione cupa e scarna: tanto vale allora consolarsi con la bellezza perfetta dell’originale.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, The Dark Side of the Moon
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