Peter Gabriel racconta «I/O», il nuovo album uscito a oltre 20 anni dal precedente: «Siamo tutti interconnessi e dovremmo ricordarcelo. Non temo la vecchiaia, credo nella longevità»
«Sono solo una parte del tutto», canta Peter Gabriel con la sua voce di velluto nel ritornello di «I/O», brano che dà il titolo al nuovo album, arrivato a oltre 20 anni dal precedente. L’interconnessione fra gli esseri viventi è uno dei temi centrali di un lavoro in cui il cantautore britannico, 73 anni, riflette sul tempo che passa, sull’amore, sulla tolleranza, sulla vita intera.
Oggi siamo più interconnessi o più concentrati su noi stessi?
«Internet e i social ci permettono di stare connessi, ma chiedono anche la nostra attenzione per guadagnare soldi. Però quella sensazione che alcune persone provano subito prima di morire o quando prendono delle droghe o meditano ci dà l’idea che ci sia qualcosa di molto più grande di quel che vediamo nella vita di tutti i giorni. Siamo piccoli atomi in un sistema unico, dovremmo ricordarlo».
Sarebbe utile tenerlo in mente anche per la crisi climatica. La supereremo?
«Non ha senso essere pessimisti perché allora tanto vale arrendersi. Vedere persone che vogliono cambiare le cose per il meglio ha un’influenza positiva e io voglio circondarmi di questo tipo di persone».
Guardando ai conflitti in corso, vede persone che lottano per un cambiamento?
«Ce ne sono in molti ambiti. Se guardiamo però a Israele e Palestina, si dovrà per forza arrivare a un accordo, altrimenti il massacro continuerà. Sostengo la Palestina da tanto perché ha subito un’oppressione enorme, ma quel che è successo agli israeliani è stato brutale e scioccante. Finirà solo quando le persone si siederanno a un tavolo a parlare».
Il tempo che passa è ben presente nel disco. Cosa ha imparato invecchiando?
«Che corri meno veloce e impari a dire più no alla gente. Forse impari anche a essere di più te stesso. Poi se guardiamo ai progressi della biomedicina, la longevità è una delle aree più interessanti. Forse stiamo entrando in un mondo diverso e se sopravviveremo alla crisi climatica dovremo cercare di costruire una società generosa ed equa per tutti».
Pensa anche all’Intelligenza Artificiale?
«Quando diventerà più intelligente degli uomini ci saranno possibilità straordinarie per cambiare il mondo, spero in meglio, ma starà a noi capire come usarla: può renderci liberi o schiavi».
«And Still» è dedicata a sua madre, morta 6 anni fa. È stata difficile da scrivere?
«Sì, ci ho messo un po’ perche avevo tanti sentimenti mescolati. Mi amava profondamente, così come io amavo lei, quindi mi è servita un po’ di distanza per poter scrivere qualcosa di vero».
Che ricordi ha della sua infanzia?
«Il Natale, la spiaggia, i pomeriggi pigri d’estate, andare sul trattore con mio padre e lavorare nella nostra fattoria… Tanti bei ricordi».
Paolo Fresu ha suonato in uno dei brani. Come l’ha conosciuto?
«Qualcuno mi ha mandato una sua bellissima versione jazz di un mio brano, «What Lies Ahead». Quando l’ho sentita ho pensato che sarebbe stato un gran musicista con cui lavorare. Non sapevo ancora che avessimo il comune legame con la Sardegna».
Continua ad andarci?
«Adoro andarci, è la mia seconda casa e mi rende felice, specie quando non ci sono troppi turisti».
Ricorda quando fu ospite a Sanremo nel 1983?
« Penso di essere famoso per la scena in cui mi sono lanciato sul pubblico con una corda, ma poi ho rischiato di farmi molto male, schiantandomi sul palco: so di aver fatto ridere due terzi dell’Italia».
L’anno scorso è andato, da spettatore, all’ultimo concerto dei Genesis.
«Ci sono andato perché i Genesis sono nati quando eravamo studenti e abbiamo lavorato sodo per far partire le cose, quindi volevo essere lì alla fine, per gli amici di tanti anni fa. È stato un misto di tristezza, calore, amicizia, anche se non era più la mia band, ma una creatura diversa. Abbiamo tanta storia insieme ed è stato bello essere lì».
Com’erano i primi tempi?
«Io ero quello che rompeva le scatole al gruppo: non erano tutti così consapevoli che dovevamo pagare le bollette e trovare date. Ci sono state due o tre occasioni in cui non sembrava che saremmo riusciti ad andare avanti, quindi il primo successo è stato bellissimo. Abbiamo tanti bei ricordi anche dell’Italia: ci andavamo in estate quando in Inghilterra non c’era lavoro. Suonavamo in discoteche, campi da calcio, teatri, ovunque ci pagassero».
(articolo di Barbara Visentin e pubblicato su corriere.it)