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Blur, il ritorno con “The Ballad of Darren” è uno dei dischi dell’anno

Blur, la copertina di The Ballad

Il 2023 non verrà certo ricordato come un anno memorabile per gli amanti del rock, eppure un ritorno sulle scene ha dimostrato che è ancora possibile sfornare dischi di grande qualità. Parliamo dei Blur e del loro The Ballad of Darren.

Otto anni dopo The Magic Whip, i Blur sono tornati insieme per quello che è appena il nono album in oltre trent’anni di storia, The Ballad of Darren, appunto. Il lavoro è stato salutato da un certo successo ed è – per chi scrive – uno dei vertici dell’anno.

Sembrano passati secoli – o meglio, pare proprio di essere su un altro pianeta – da quando, a metà anni Novanta, la presunta rivalità tra Blur e Oasis infiammava gli ultimi respiri del rock, già all’epoca morente. Una rivalità che, rispetto a quelle di puro marketing stile Beatles vs Rolling Stones, era reale, con parole grosse che volavano tramite le riviste.

Fa un po’ specie pensare all’evoluzione dei Blur e in particolare del loro leader Damon Albarn. Mentre i fratelli Gallagher sono ancora presi a litigare come adolescenti – senza esserlo più – e a sfornare dischi in cui suonano, benissimo per carità, le stesse canzoni del 1995, i Blur mantengono un legame sottilissimo con quelli caciaroni degli esordi Brit.

Eppure, caso più unico che raro, i quattro sono sempre gli stessi. C’è Damon, sempre diviso tra mille progetti e sempre votato alla causa sempiterna dei grandi talenti dispersivi; alle chitarre troviamo Graham Coxon, sempre pronto a virare verso lidi noise, al basso Alex James e alle pelli Dave Rowntree.

Dopo The Magic Whip, dove il filo rosso del disco era l’amore per le culture orientali, stavolta il tema conduttore è una sorta di omaggio a Leonard Cohen, filtrato attraverso un murales visto da un hotel di Montreal. I suoni sono lontanissimi dai Blur storici, quelli pop degli esordi e quelli indie della svolta di 13. Siamo più dalle parti di un raffinato pop d’autore, spruzzato d’elettronica e di melodie sempreverdi che strizzano l’occhio a Cohen, a Bacharach, ma anche a nomi più lontani come i Procol Harum.

A tratti sembra più un disco solista di Damon, ma qualche accelerazione rock riporta a certe scatenate baruffe elettriche dei Blur di fine anni Novanta. Quello che conta, però, è il risultato e The Ballad of Darren, ripetiamo, è uno dei pezzi forti dell’annata. Soprattutto, i Blur riescono ancora a suonare perfettamente contemporanei, mantendo a distanza di sicurezza l’effetto reunion.

Quello che solletica il lato nostalgico che tutti abbiamo, ma che fa inesorabilmente sentire vecchi sia gli ascoltatori che i protagonisti.

Il tema del lavoro, come già per il mitico 13, è la fine di un rapporto sentimentale di Damon. Il pathos si sente tutto, anche se il cantante si è giustamente augurato di non ripetere più un’esperienza così distruttiva. Anche se – con un certo egoismo – si deve ammettere che forse Albarn dà il meglio in queste situazioni non proprio trionfali.

A evocare la solitudine ci pensa con efficacia la copertina. Lo scatto del fotoreporter Martin Parr ricorda nei colori qualche episodio più luminoso – The Great Escape – ma a guardare bene l’atmosfera è cupa. Un cielo plumbeo, un panorama desolato e una piscina dove un uomo, solingo come in una lirica di Leopardi, nuota senza badare al mondo intorno.

Il nuovo lavoro dei Blur si apre con The Ballad, pezzo che dal titolo chiarisce subito l’andamento. La base è soffusamente elettronica, la voce di Damon regolata sui registri più profondi. Il ritornello è però spiazzante, con gli archi che fanno capolino e il fantasma degli ultimi, raffinati Arctic Monkeys sullo sfondo. Un attacco che magari spiazza la fanbase ma mette subito in chiaro la crescita all’insegna della qualità compositiva della band.

Con St. Charles Square pare invece di essere tornati ai tempi di 13. Coxon sfoga la sua verve chitarristica e Damon tira fuori la sua parte più indolente e ai limiti del punk. Le urla con cui puntella il ritornello suonano liberatorie per lui ma forse più ancora per i fan della prima ora. La trasformazione vocale dal pezzo d’apertura è sconvolgente. Da raffinato chansonnier alla Burt Bacharach a incrocio tra Elvis e Iggy Pop nello spazio di una canzone.

I Blur più classici vengono evocati anche nella bella Barbaric, pezzo Brit Pop con chitarrine squillanti nella miglior tradizione del genere. Il ritornello è poi di quelli che si stampano in testa per uscirne difficilmente. Cosa chiedere di più a un pezzo pop?

Russian Strings vira di nuovo al pop raffinato e melodico. La voce di Albarn si fa di nuovo profonda, la melodia pare quasi inseguire A Salty Dog dei Procol Harum per poi cambiare strada all’improvviso. Un brano atmosferico, uno dei cavalli di battaglia dell’album e, in definitiva, uno dei pezzi più belli del 2023.

Lo stato di grazia prosegue con The Everglades (For Leonard) dedicata proprio a Cohen. Un bozzetto folk breve e intenso, con qualche nota di malinconia sudamericana nascosta tra le pieghe. Una canzone quasi solista di Damon, accorata e commovente anche nel testo. E una coda rumoristica che pare citare i Radiohead di Karma Police. In una parola, un capolavoro.

Si passa a The Narcissist, singolo dell’album e altro brano che riporta agli anni Novanta e ai Blur più amati dai fan. Un pezzo che va in crescendo e che offre un ritornello killer con Damon che si arrampica su un falsetto d’altri tempi.

Siamo in pieno secondo tempo di questo The Ballad of Darren e arriva un altro mezzo miracolo con Goodbye Albert. Il testo è una straziante dichiarazione d’amore fuori tempo massimo; Damon canta con una fredda disperazione e la musica è all’altezza di tanta distaccata malinconia. Siamo ancora dalle parti della canzone pop perfetta.

Far Away Island, ancora più lenta e rarefatta, non è da meno. L’impasto vocale coi cori, il contributo misurato della sezione ritmico, l’andamento da marcetta sghemba, tutto è ancora talmente calibrato da sembrare quasi sprecato per orecchie tanto distratte come quelle del pubblico attuale.

C’è ancora spazio per Avalon, raffinato esercizio ai limiti del soul che vira nel ritonello verso lidi inaspettati, e per la chiusura di The Heights. Per congedarsi dal pubblico – speriamo non per altri otto anni – i Blur scelgono la carta di una ballata che rimanda al passato.

The Heights è stupenda, una carezza all’anima con un crescendo di archi e un testo che offre un qualche tipo di speranza dopo un album che proprio allegro non è.
La chiusura pare quasi una concessione all’amore per il noise di Coxon, prima di interrompersi così, all’improvviso.

Insomma, i Blur di The Ballad of Darren fanno un centro perfetto. Il dubbio è che ci sia qualcuno a guardare, data la natura sempre meno portata all’ascolto profondo della musica di oggi. Noi, però, vogliamo essere ottimisti e pensare che nel mondo del pop ci sia ancora spazio per prodotti di tale qualità. E che ci sarà sempre.

— Onda Musicale

Tags: Blur, Oasis
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