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“Sulla fine delle cose” è il nuovo album di Dropout

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immagine copertina artista dropout

“Sulla fine delle cose”, il nuovo album di Dropout: una raccolta di 10 pezzi introspettivi e malinconici.

Dropout è un compositore e designer grafico in continuo movimento tra Italia, Inghilterra e Giappone. Chitarrista per elezione, synthesista per evoluzione, dal 1996 ha all’attivo diversi lavori su commissione per multimedia, ambienti (negozi, installazioni architettoniche), installazioni artistiche e danza contemporanea. Oltre che 7 LP di Indie elettronica sperimentale. Collabora con la compagnia inglese Londonacoustics.com nella progettazione e realizzazione di plugin pro-audio. Oltre che con altre aziende internazionali del settore musicale come, per esempio, sE Electronics; Sonic Distribution e Aston Microfoni. Il lavoro di Dropout è un caleidoscopio di suoni elettronici che evocano sfumature rarefatte di kraut-rock; strutture progressive ’70, con sporadiche sonorità new wave e decise influenze elettro-folk. Per un risultato mai troppo nostalgico, sempre proteso verso la sperimentazione contemporanea. Certamente con un percorso personale in direzione ostinata & contraria alla volatilità e imposizione delle mode. 
Venerdì 5 aprile è uscito in digitale “Sulla fine delle cose”, una raccolta di 10 pezzi introspettivi e malinconici (ma non tristi) che esplorano il tema della fine.
Abbiamo chiesto a Dropout di raccontarci qualche curiosità in più sul suo lavoro:

Dropout è un compositore e designer grafico. Come convivono in te queste due passioni?

La musica come la grafica sono due discipline molto simili in quanto richiedono una buona dose di visualizzazione dell’obiettivo. Di conseguenza, un’adeguata organizzazione nella composizione. Poi, ovviamente, esistono due modi di fare design: uno è creare in modo libero e sperimentale; un approccio totalmente artistico dove non hai costrizioni o vincoli da parte di nessun committente esterno. Mentre l’altro è progettare su commissione, strettamente all’interno dei suddetti vincoli. Per la musica è esattamente lo stesso, e lo si può facilmente comprendere ragionando sulla differenza tra un disco d’avanguardia e una colonna sonora per un film. Entrambe le strade possono portare allo stesso risultato sonoro, ma la differenza; nel caso della colonna sonora, è che durante la sua composizione è fondamentale seguire lo svolgersi delle scene del film.
Ho scoperto piuttosto recentemente che la mia visione delle due cose, musica e design, assomiglia molto a quella di Brian Eno. Lui è un notissimo produttore e musicista con una formazione universitaria nelle arti grafiche, proprio come me. Eppure nonostante io abbia il suo stesso approccio alla musica, per molti anni l’ho ascoltato in modo passivo. Praticamente inconsapevole, esclusivamente nella figura di produttore di Bowie e degli U2. Questo perché non ho mai amato tantissimo la musica Ambient, quindi l’avevo sempre (superficialmente) evitato a priori. Però di recente sono andato a ritroso nella sua produzione e ho apprezzato decisamente i suoi primi lavori post-rock.

Tornando al discorso di convivenza delle due passioni, parafrasando Eno, non trovo ci siano per me dei confini ben definiti tra i due campi. Ad esempio la mia tesi all’ISIA di Urbino, del 2002, verteva sulla necessità di progettare musica “loop” per il multimedia efficace ma di dimensione leggera. Quindi c’è sempre stata reciprocità tra i due campi per quanto mi riguarda.

Inoltre, dal 2000 in poi circa, c’è stato un “germogliare” di software per la produzione musicale. Che rendevano ancora più evidenti i paralleli tra composizione d’immagine e composizione musicale. Come per esempio Acid dell’allora Sonic Foundry o il suo fratello minore Ableton Live, oggi decisamente più famoso. Questi programmi hanno reso estremamente visuale lo svolgersi della composizione musicale mediante un workflow basato su codici colore; tracce su diversi piani e clip di ripetizioni loop facilmente estendibili su griglie con un movimento di mouse. Tanto da modificare addirittura lo stile e il modo di immaginare la composizione contemporanea.
Gruppi come i Daft Punk e gran parte dell’Hip-Hop, ad esempio, devono molto a queste applicazioni per lo sviluppo del loro stile. Oggi penso che la maggior parte dei ragazzi che si approccia alla home-studio music parta principalmente con quella visione compositiva. Il mio recente disco “Sulla fine delle cose” vorrebbe infatti reagire a questa eccessiva “loopizzazione” generale. Forse ormai un po’ banalizzante e semplicistica, riproponendo un tipo di composizione più simile a quella pre-digitale, ovvero sempre in multitraccia ma lineare, suonata e non basata su ripetizioni di clip.
Photoshop, d’altra parte, potrebbe essere descritto in modo simile ai citati software per la produzione musicale perché crea composizioni mixando vari livelli.
Questa la mia considerazione tecnica della questione. Dal punto di vista invece prettamente teorico, lo studio approfondito della grafica; della storia dell’arte, delle tecniche compositive, ecc. mi ha aiutato moltissimo ad essere concreto e ad affrontare qualsiasi tipo di progettazione artistica, quindi anche la composizione musicale.

Ci sono dei “rituali” che segui quando decidi di comporre?

Primo, cercare di non ripetere quanto già fatto nei miei lavori precedenti. Ovviamente mantenendo il mio stile, ci mancherebbe altro. Per questo in genere faccio trascorrere un po’ di tempo tra un disco e l’altro. Proprio perché necessito di uscire da un modus operandi ormai consolidato, per dimenticarmene totalmente, allo scopo poi di ricostruirne un altro ex-novo.
Poi, in genere, parto con un concetto tematico da sviluppare. Non deve essere per forza così costrittivo, però trovo che mi aiuti a mantenere una linea stilistica coerente tra i vari pezzi.
Durante le lunghe pause di tempo tra un lavoro e l’altro improvviso spesso alla chitarra o al sintetizzatore. Quindi se trovo qualcosa di interessante, magari anche solo un accenno di idea che mi stimola; me lo segno in appunti sonori, mediante cellulare o un registratore qualsiasi.
Dopo uno o due anni ho dunque una buona dose di bozze che raccolgo tutte in una cartella, nel mio lettore digitale portatile. Ascoltando questi appunti, magari durante lo svolgimento di altre mansioni, mi segno quello che secondo me funziona ancora a distanza di tempo ed elimino il restante.
Dopo una serie di passaggi del genere esce quindi una raccolta di 10-12 idee ben soppesate. Se messe nel giusto ordine, andranno a fare da “germogli” per la fase iniziale della composizione del nuovo disco.
Spesse volte stravolgo totalmente tali appunti, tanto da rendere i risultati irriconoscibili. Questo dipende dal fatto che poi, sul canovaccio del ricordo di tali appunti, improvviso di nuovo senza più ascoltare le origini.
Una volta tracciate le demo, se necessario, poi metto in bella copia, reincidendo tutto. Nell’ultimo disco questo non è sempre successo, molte canzoni sono infatti rimaste come erano in bozza perché ho ritenuto che l’atmosfera che le permeava era già interessante ma difficilmente ripetibile in modo così spontaneo.
I testi vengono al 99% scritti dopo la musica, ed è una fase sempre dolorosa in corso d’opera, ma alla fine soddisfacente. Ho scoperto infatti che nella stragrande maggioranza dei casi non mi piace la musica composta su testi già scritti, anche perché spesso questo è l’approccio compositivo di chi non suona nemmeno uno strumento.

Se dovessi descrivere le tue sonorità attraverso un paesaggio, quale sceglieresti?

In questo disco, direi, un paesaggio marino, una spiaggia composta da sabbia fine, molto ampia e profonda, magari delimitata, all’orizzonte, da due fari lontani e opposti che lampeggiano svogliati.
L’atmosfera è estiva, ovviamente molto umida, il cielo plumbeo e basso fa presagire la pioggia che sta arrivando da molto lontano. Ma non piove e ancora non pioverà, perché il vento tace, come rivela la bandiera immobile. La temperatura e la luce sono come quelle nei sogni, ideali. Non ci sono ombre sotto gli ombrelloni, perfettamente allineati, ma chiusi in loro stessi. La sabbia non ha altre impronte se non le proprie, in quanto, dato il meteo, nessun altro è sceso a mare.
Chi ascolta è seduto sul fondo della spiaggia, dove iniziano le dune, e da lì osserva tutta la scena fin qui descritta. Ogni tanto arrivano grida di bimbi che giocano lontano. Si è in attesa di qualcuno che vorremmo avere accanto ma che non arriverà.
Questa scena di solitudine è perfetta per la malinconia, non troppo triste però, che credo traspaia in queste mie ultime canzoni.

Sulla fine delle cose” è il tuo nuovo album. Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato nel produrlo e come ne sei venuto a capo?

In realtà è tutto uscito in poche settimane senza nessun grosso intoppo, infatti conservo davvero un bel ricordo di quelle sessioni. Entravo facilmente nel mood e vi ci restavo come in trance. Sono stato agevolato dal sistema automatizzato di registrazione che mi sono costruito e col tempo perfezionato, che mi permette di non avere distrazioni verso il fattore “informatico”, per concentrarmi solo sul suonare.
Le difficoltà subentrano in un secondo momento, in modo via via crescente, quando è ora di pensare alle questioni tecniche come la pulizia delle tracce, il missaggio, l’esportazione e il mastering.
Poi è la volta della veste grafica, che per fortuna sono in grado di affrontare personalmente, come tutte le altre cose elencate (levato il mastering, che faccio fare sempre e volentieri esternamente). Ma fin qui tutto ancora abbastanza bene. Perché la fase più ardua per me è in realtà la parte della pubblicazione e promozione, in quanto avviene, in genere, dopo più di un anno dalla realizzazione delle musiche, e tendenzialmente, quindi, sto già con la testa su nuove idee e nuovi lavori.
Diciamo che se avessi i mezzi e il personale di una produzione non indipendente, avrei la vita sicuramente più facile e i risultati dal punto di vista tecnico sarebbero sicuramente più professionali ma, pensandoci bene, forse non avrei tutta questa libertà che ho adesso e probabilmente sentirei ciò che faccio molto meno mio.
D’altronde con il mio metodo piuttosto “autarchico”, di lavoro in lavoro, sento di crescere non solo a livello musicale ma anche a livello tecnico.

Come sono cambiati (se sono cambiati) i tuoi gusti musicali nel corso del tempo?

Non tanto, credo, in quanto ho avuto la fortuna di partire inconsapevolmente, in giovanissima età, già con buoni ascolti (Dalla, Battisti, Battiato, De Gregori, PFM, Litfiba della prima trilogia, ecc.) per poi, dall’adolescenza, spostare l’attenzione un po’ più all’estero, su generi come New Wave, Art Rock, Progressive Rock, Goth, Punk, Grunge, elettronica tipo IDM e quella dei compositori d’avanguardia, ecc.
Ho sempre avuto un tipo di ascolto critico “filologico”, con modalità additiva e non sostitutiva, tanto che nel mio lettore mi porto dietro, ovunque io vada, quasi tutta la mia esperienza da ascoltatore negli anni.
Quindi ancora oggi riascolto volentieri gli album di allora, anzi a volte ne sento proprio la necessità.
Ad esempio, adesso, sto riascoltando “Double Fantasy” di John Lennon, nella versione “stripped down” curata dal Yoko Ono nel 2010, molto interessante, sicuramente superiore alla versione originale.
Stessa emozione di riscoperta c’è stata con il recente “Animals” dei Pink Floyd, finalmente mixato in modo appropriato. Lo adoro, mi fa viaggiare davvero distante.

— Onda Musicale

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