Musica

Breve storia della chitarra jazz-blues

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Il bluesè tra le meraviglie musicali del 900. Infatti, all’alba dello scorso secolo in Occidente, una delle novità musicali più importanti è stata proprio l’apparizione del linguaggio jazz-blues di matrice afroamericana, che si è affiancato e sovrapposto a quello classico-europeo. 

E, complice l’elettrificazione avvenuta negli anni trenta, la chitarra ne divenne sempre di più lo strumento principe. Va da sé che anche altri strumentisti jazz come fiatisti, pianisti ecc. hanno fatto la loro gran parte, ma da lì non è sorta alcuna scuola o genere importante rispetto a quella del rock-blues chitarristico e suoi sviluppi.
 
Negli anni ‘50 nacque il rock&roll, semplificazione e velocizzazione del Blues delle prime decadi del secolo, con conseguente massificazione dell’intrattenimento giovanile nelle sale da ballo; dalla metà anni ’60 in poi, dopo le lezioni di T.Bone Walker e dei 3 King del Blues (B.B.,Freddie Albert), col suono della chitarra elettrica sempre più saturo, è sorto il rock-blues, più di ascolto con dischi e concerti, ma sempre massificato: Clapton e Hendrix regnarono…

Questo ramo lo si conosce già, e da allora non ha avuto novità fondamentali. Qui, invece, si vogliono rammentare le più importanti radici e ramificazioni dell’albero dei maestri chitarristi che sin dall’inizio dell’elettrificazione fino ai nostri tempi, pur essendo quasi sconosciuti ai più, hanno amalgamato creativamente due cardinali linguaggi: quello jazzy (sofisticato e verboso) e quello bluesy (stringato e incisivo).

Charlie Christian (sul finire degli anni ’30) fu il primo che muovendosi dalla formidabile, geniale e omnicomprensiva lezione di Django Reinhardt la mescola col carattere e lessico bluesy, fondando il linguaggio basilare per i chitarristi jazz dell’avvenire… Christian peraltro si ispira ai fiatisti, a quelli che “cantano” di più, come Lester Young: suona meno note rispetto al geniale Reinhardt, tralascia molte delle sue soluzioni, sintetizzando quel che la chitarra allora col suono amplificato permetteva in quanto ad articolazione e sostegno sonico, in un idioma ricco e marcato allo stesso tempo.

 
Il suo più grande erede fu Wes Montgomery: tra la fine dei ’50 e i ’60 sviluppò ulteriormente questo linguaggio rinnovandolo anche con nuove tecniche (thumb-pick, linee melodiche a ottave, block-chords…).
Negli anni ’70 i chitarristi più significativi che emersero giovandosi delle lezioni di quei due giganteschi jazzisti, furono (i confratelli stilistici) Larry Carlton/Robben Ford* e John Scofield: le mescolarono con quello che sul versante rock-blues (i King, Clapton, Hendrix ecc.) era accaduto con i suoni saturi e sempre più aggressivi e canterini: furono tra gli inauguratori della chitarra fusion.

L’ultimo degno di nota in ordine di apparizione è Scott Henderson, che tra gli Ottanta e i Novanta s’impose come un chitarrista che dopo esser partito da un moderno Jazz-rock, è approdato a un evoluto fusion/rock-blues, sorta di altra faccia della stessa medaglia di Carlton/Ford: meno levigata ed elegante nella forma espressiva, seppur molto sofisticata nei contenuti. Peraltro è l’unico tra questi che usi la leva vibrato.

Può giovare un’annotazione di carattere “grammaticale”: l’invalso Blues (da quello di Robert Johnson, Muddy Waters ecc. a quello di BB. King, Clapton ecc.) si avvale di poche e cicliche armonie accordali (3-4 accordi che si ripetono), quasi sempre di carattere maggiore e modulanti, cioè nella convenzionale teoria non appartenenti alla medesima tonalità; dunque un pezzo blues a rigore è multi scalare. Tuttavia le melodie e le conseguenti improvvisazioni, invece di essere strutturalmente sinuose e complesse, sono semplici e scolpite. Infatti, quasi sempre è usata solo una scala, peraltro nemmeno eptatonica (7 note), ma pentatonica (5), a volte con l’aggiunta di una nota (scala blues), massimo due, di passaggio.

 
La procedura è elementare: per esempio, un blues in DO è fondamentalmente costituito da tre accordi, il primo, appunto DO (I grado), poi FA e SOL (e quindi IV e V).
 
Convenzionalmente si dovrebbe suonare mediante la scala maggiore di DO. Invece, tramite la scala pentatonica minore (e/o la blues con la nota in più), DO-MIb-FA-(SOLb)- SOL-SIb (e poi DO), le note che si sovrappongono all’accordo matrice (I) sono diminuite di un semitono, a parte la tonica: MIb e SIb, talvolta il SOLb. Si ha così un sapore di sonorità di settima dominante (DO7). Anche sul FA si sovrappone la settima minore (in luogo della convenzionale maggiore) ossia nota MIb; il SOL è naturalmente accordo dominante (SOL7). Tanto che quasi sempre si suonano direttamente accordi di settima dominante (e per questo sarebbe una sequenza modulante).

Quel che Christian e Montgomery hanno fatto è stato condensare la semplice cantabilità bluesy con la ricchissima lezione lessicale jazz, multi scalare/arpeggi e quant’altro estendendo e incrementando quel che la pentatonica minore (e blues) fa con l’accordo matrice con tutti gli altri della sequenza e in modo differente; non si sono limitati a trasportare quelle alterazioni, ma ne hanno intessute di altre, molto raffinate, relazionandole alla matrice armonica.

 
E quel che hanno ulteriormente compiuto Carlton, Scofield e gli altri è stato coniugare tutto ciò con l’estrema incisività e liricità del rock-blues: pertanto usare le risorse lessicali (armonico-melodiche) jazz con la lezione ultra penta-lirica di Clapton, Hendrix ed epigoni tramite la chitarra elettrica con suoni distorti. Meraviglie musicali del ‘900…
 
* Seppur attivi tutti e due sin dai primi anni Settanta, Carlton s’imporrà prima a fronte di una maturità conseguita subito (pure perché di qualche anno più anziano), poi emergerà maggiormente Ford.
 
(di Carlo Pasceri –  link)
 

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