Corre l’anno 1974, e David Bowie è reduce dal trionfo del glam rock. A pochi mesi dal successo di Aladdin Sane e dai fasti di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, quando pubblica Diamond Dogs, David non è già più lo stesso.
Ziggy è sparito dalle scene e l’instabilità sociale e politica dei primi anni Settanta lo affascina sempre più, trascinandolo in una Londra opprimente e futuristica, dove potrà costruire un’ulteriore rivoluzione musicale. Da quest’ispirazione prende forma Diamond Dogs: Un album concepito come una sorta di incubo distopico dove Bowie fonde il suo fascino per le atmosfere apocalittiche con suggestioni letterarie.
Originariamente nato come tentativo di adattare il romanzo 1984 di George Orwell, Diamond Dogs diviene un caleidoscopio di storie urbane, piene di degrado e provocazione, che si sviluppano tra personaggi strambi e l’ombra di una dittatura totalitaria. Nonostante l’ovvio rifiuto degli eredi di Orwell, Bowie porta avanti il progetto, costruendo un mondo di “cani di diamante” attraverso brani che oscillano tra il funk, il rock e sfumature proto-punk, in uno stile unico che esplora i lati più oscuri della sua creatività.
L’album si apre con una breve intro, Future Legend. Qui Bowie ci trascina in una Londra post-atomica, dominata da gang violente e personaggi surreali: “In the decayed tenements of London, the last of the children of men roam.” In questo brano, più che cantare, David recita, con un tono tra il profetico e il teatrale, preparando il pubblico a un viaggio stravagante che avrà il suo culmine nella successiva traccia, Diamond Dogs.
Qui Bowie si presenta come un narratore graffiante, dipingendo una società allo sbando, popolata da creature che sembrano uscite da un incubo cyberpunk. La chitarra suonata dallo stesso Bowie è ruvida, perfino dissonante, come a voler sfidare l’orecchio dell’ascoltatore
Il ritornello, “Diamond Dogs are poachers and they hide behind trees,” ci riporta al senso di inquietudine che pervade tutto l’album. Un mondo dove i protagonisti sono “cani” che, come animali feroci, si nascondono e colpiscono.
Sweet Thing e Candidate sono le tracce che seguono. Le canzoni sono collegate da un tema comune e sviluppate come una mini-suite. Si tratta di brani complessi e stratificati che esplorano l’idea di alienazione e paranoia. La voce di Bowie passa dai toni morbidi e inquietanti a esplosioni improvvise, alternando momenti di pacata malinconia a picchi di disperazione.
Qui, Bowie è protagonista assoluto, recitando ogni verso come se fosse sul palco di un teatro decadente. E la ripresa finale di Sweet Thing, con il suo crescendo quasi minaccioso, trascina l’ascoltatore sempre più in profondità.
E poi arriva Rebel Rebel, il singolo per eccellenza. Con il suo riff iconico e trascinante, è l’ultima grande manifestazione dell’anima glam di Bowie. Un inno al non conformismo che resta uno dei pezzi più riconoscibili della sua carriera. Non c’è traccia della distopia che caratterizza il resto dell’album. E’ quasi come se Bowie volesse offrire una tregua, un momento di puro divertimento prima di ripiombare nella sua visione inquietante del futuro.
La seconda parte dell’album si apre con Rock ‘n’ Roll with Me, una ballata che, pur senza raggiungere la forza di Rebel Rebel, presenta Bowie in una veste più riflessiva. La collaborazione con Warren Peace arricchisce il pezzo di un tocco romantico, quasi da confessionale. Ma è solo una parentesi, perché con We Are the Dead il viaggio distopico riprende forza. Qui Bowie canta con una voce grave, in un’atmosfera angosciante che evoca il romanzo di Orwell.
“We are the dead,” ripete come un mantra, mentre una cadenza lenta e ipnotica trascina il pezzo in un abisso di claustrofobia
Segue 1984, un brano che preannuncia il fascino di Bowie per il soul e il funk che avrebbe esplorato a fondo nel successivo Young Americans. Le influenze di James Brown e Curtis Mayfield sono chiare, ma l’anima visionaria di Bowie le trasforma in qualcosa di nuovo, con un ritmo pulsante e una chitarra wah-wah che guida l’ascoltatore attraverso una scena che sembra tratta da una disco fantascientifica.
A chiudere l’album è la drammatica Big Brother, che culmina nel mantra Chant of the Ever Circling Skeletal Family, una coda ipnotica e vagamente inquietante, in cui Bowie ripete “Brother” fino a sfumare nel nulla, come a voler suggerire che l’utopia negativa che ha costruito si dissolve in un vortice di follia
Diamond Dogs non è solo un album; è una visione, un’esperienza immersiva che invita a riflettere su un mondo in disfacimento. Con questo lavoro, David Bowie segna un nuovo passo nella sua carriera, rifiutando di adattarsi alle aspettative del mercato e mettendo alla prova se stesso e i suoi fan. La sua voce si fa strumento narrativo, accompagnata da arrangiamenti minimali che riflettono il caos e la decadenza della città immaginaria in cui ci ha portato.
In Diamond Dogs, Bowie dimostra di essere più che un musicista: è un regista, un drammaturgo che, con pochi mezzi, riesce a creare un mondo surreale e distorto. È un album che, pur nella sua oscurità, continua a influenzare generazioni di ascoltatori e musicisti, restando uno dei capitoli più significativi di una carriera che avrebbe ancora sorpreso il mondo in modi inimmaginabili.