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A Night at the Opera: il capolavoro immortale dei Queen

A Night At The Opera

Nel turbolento panorama musicale degli anni ’70, i Queen siglano un’opera che riscrive le regole del rock. A Night at the Opera fonde generi, sperimentazione e teatralità in un disco che rimane tra i più influenti della storia.

Il 1975, l’anno di A Night at the Opera, è un anno cruciale per la musica. Il rock si presenta come un caleidoscopio di stili in continua evoluzione. Da una parte, il progressive domina con suite elaborate e concept album complessi; dall’altra, il punk inizia a ribollire nelle viscere della scena londinese, pronto a esplodere in una rivoluzione. In questo contesto, i Queen si trovano in una posizione di transizione. Dopo tre album – Queen (1973), Queen II (1974) e Sheer Heart Attack (1974) – hanno costruito una solida fanbase, ma non sono ancora una band pienamente affermata dal punto di vista economico o artistico.

Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon sanno di avere un potenziale straordinario. La pressione è alta: hanno bisogno di un lavoro che non solo consolidi la loro carriera, ma li proietti nell’olimpo delle grandi rock band. A Night at the Opera diventa la risposta alla non semplice questione. Non è solo un album, ma una dichiarazione d’intenti. I Queen hanno deciso di rompere le convenzioni, osare al massimo e mostrare al mondo di cosa sono capaci.

La realizzazione di A Night at the Opera è un’impresa monumentale. Il titolo dell’album, ispirato all’omonimo film dei fratelli Marx, sottolinea l’approccio teatrale e irriverente del progetto.

Registrato tra agosto e novembre del 1975 in sei studi diversi, tra cui il celebre Rockfield Studios in Galles, il disco sfrutta le tecnologie più avanzate dell’epoca. Ogni dettaglio è curato al massimo, dai sofisticati arrangiamenti vocali e strumentali alle innovative tecniche di registrazione.

Con Roy Thomas Baker come produttore, i Queen raggiungono un livello di complessità mai visto prima. La band lavora con un budget di oltre 40.000 sterline – una cifra astronomica per l’epoca – ma nulla viene lasciato al caso. Per registrare Bohemian Rhapsody, ad esempio, vengono utilizzati fino a 180 overdub vocali, spingendo i nastri magnetici al limite della loro capacità.

La coesione del gruppo è fondamentale. Ognuno dei membri contribuisce con le proprie composizioni e la propria visione, rendendo l’album un mosaico di influenze e stili diversi. La passione, l’ambizione e il perfezionismo emergono in ogni traccia, confermando che i Queen del 1975 sono una band in stato di grazia.

Anche la copertina riflette l’essenza grandiosa dell’album. Disegnata da Freddie Mercury, riprende il logo della band con i simboli zodiacali dei quattro membri: i leoni per Roger Taylor e John Deacon, il granchio per Brian May e due fate a rappresentare la Vergine per Freddie. L’aspetto araldico e sofisticato è il preludio perfetto a un contenuto musicale che mescola con maestria alto e basso, rock e lirica, ironia e dramma.

Il disco si apre con Death on Two Legs (Dedicated to…), un pugno nello stomaco. Freddie Mercury scrive questa feroce invettiva contro Norman Sheffield, ex manager della band, accusato di averli sfruttati economicamente. Il brano è un mix di liriche velenose (“You suck my blood like a leech”) e arrangiamenti drammatici. La tensione è palpabile fin dalle prime note, con il piano di Mercury che introduce un’atmosfera carica di rabbia e teatralità.

Si passa a Lazing on a Sunday Afternoon. Con questo pezzo, Mercury porta l’ascoltatore in un cabaret degli anni ’20. La voce di Freddie, filtrata per sembrare proveniente da un vecchio grammofono, si unisce a un arrangiamento leggero e ironico. Il brano è breve ma memorabile, dimostrando la capacità dei Queen di sperimentare con diversi registri.

Il terzo brano è I’m in Love with My Car, in cui Roger Taylor celebra la sua passione per i motori. E lo fa con un brano in cui canta e suona la batteria. La voce roca e potente di Taylor si sposa con riff incisivi, mentre il testo, dedicato alla sua Triumph TR4, suscita ironia ma anche una certa ammirazione per l’audacia del tema.

Con You’re My Best Friend, John Deacon contribuisce con una delle tracce più pop e radiofoniche dell’album. La melodia dolce e la linea di Wurlitzer rendono questo brano una dedica affettuosa alla moglie di Deacon. La semplicità apparente nasconde un arrangiamento raffinato, che conquista immediatamente il pubblico.

Invece, con ’39, Brian May dimostra il suo talento compositivo con una ballata folk fantascientifica. Il testo racconta di un viaggio spaziale e della relatività del tempo, mentre la melodia, semplice ma evocativa, è arricchita da cori che creano un’atmosfera malinconica e suggestiva.

Sweet Lady è tra i brani più duri dell’album e si distingue per il riff serrato e il ritmo incalzante. Sebbene sia considerata una traccia minore rispetto ad altre, contribuisce alla varietà stilistica del disco, dimostrando la versatilità dei Queen.

Si passa a Seaside Rendezvous, un altro divertissement in stile vaudeville, con Mercury e Taylor che imitano strumenti orchestrali come il clarinetto e il kazoo attraverso vocalizzi. Il brano è un esempio perfetto della teatralità giocosa dei Queen.

Con i suoi otto minuti di durata, la suite epica scritta da Brian May The Prophet’s Song rappresenta uno dei momenti più ambiziosi dell’album. I cori imponenti, le armonie vocali e le atmosfere apocalittiche creano un senso di grandiosità e mistero. Il brano è il contraltare serio e profondo a Bohemian Rhapsody.

Mercury dedica Love of My Life, ballata struggente, a Mary Austin, la sua compagna di allora. Il piano delicato e la voce emotiva di Freddie rendono il pezzo un classico senza tempo, amatissimo durante i concerti live, dove il pubblico canta all’unisono.

In Good Company, Brian May si cimenta con il banjo e arrangiamenti in stile dixieland. Il brano racconta una storia con toni malinconici, dimostrando ancora una volta l’abilità dei Queen di muoversi tra generi diversi.

Siamo giunti finalmente a Bohemian Rhapsody, centro dell’album e brano che consegna i Queen all’immortalità. Questa mini-opera in tre atti è un capolavoro assoluto, che mescola rock, lirica e dramma in una struttura rivoluzionaria. Freddie Mercury scrive un testo enigmatico, interpretato con una teatralità senza precedenti. La sezione operistica – con i suoi “Galileo” e “Figaro” – richiede settimane di registrazione e ridefinisce i confini del rock. Il risultato è una delle canzoni chiave della storia del rock. Come sempre in questi casi, il pezzo è talmente abusato e rivisitato da correre il rischio di giungere a noia. E allora, proviamo a riascoltarlo come se fossimo nel 1975, quando un pezzo del genere non si era mai sentito.

L’album si chiude con una versione strumentale dell’inno nazionale britannico, God Save the Queen, arrangiata da Brian May. È una conclusione ironica e regale, perfettamente in linea con lo spirito del disco.

Quando esce, A Night at the Opera riceve un’accoglienza entusiastica. L’album conquista la vetta delle classifiche britanniche e rimane un successo internazionale. Bohemian Rhapsody, in particolare, diventa un fenomeno culturale, rimanendo al primo posto per nove settimane nel Regno Unito e consolidando lo status dei Queen come superstar globali.

Con il passare del tempo, l’album viene consacrato come uno dei più grandi capolavori della musica rock. La sua miscela di audacia, tecnica e originalità rimane insuperata. A Night at the Opera non è solo un disco: è un’esperienza teatrale, un viaggio musicale che incarna lo spirito rivoluzionario ed eccessivo dei Queen.

— Onda Musicale

Tags: Queen, Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor, John Deacon, Mary Austin
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