Musica

Dittatura, consumismo e Industrial, l’irrisolta Provocazione dei Laibach a Roma

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Probabilmente molte delle persone che leggeranno questo articolo non avranno idea di chi siano i Laibach e, lo confesso, è probabile che neanche io abbia ancora capito chi siano.

Si tratta infatti di un gruppo non scontato, non liquidabile con poche parole a sintesi della bella esibizione romana di qualche giorno fa. In breve, si sta parlando di una band slovena – e già qui le cose potrebbero sembrare complicate – che da oltre trent’anni se ne va in giro per il mondo a proporre un repertorio unico, non di facile fruizione e con un aspetto che, a un primo sguardo, pare oscillare costantemente tra il serio e il faceto, tra il blasfemo e l’inquietante, tra la rievocazione storica e la satira sfrontata.

I Laibach del resto hanno rappresentato per moltissimo tempo la parte musicale del controverso collettivo Neue Sloweniche Kunst (o NSK), nonché il gruppo più famoso di questo e in grado di plasmarsi in base al passaggio dei decenni. Musicalmente parlando sono stati spesso accomunati all’idustrial – di cui sono considerati i precursori, per certi aspetti – anche se la band ha sempre rifiutato definizioni di alcun tipo.

E probabilmente è proprio nella mancanza di una dichiarazione esplicita che il fenomeno Laibach da tempo è riuscito a lasciare perplesso chi cerca di comprenderlo, nonostante la carriera abbastanza longeva. Riprendendo costantemente l’estetica militare di diversi totalitarismi, immettendola nella loro musica tramite: parole, sonorità, scenografie, tematiche, hanno attirato su di loro numerose critiche da ogni direzione, senza mai dare, tuttavia, risposta a queste.

Da sempre affascinati dagli effetti della retorica, dei linguaggi e dei fasti dei totalitarismi sul grandissimo pubblico, i Laibach hanno reso ancor più delirante e folle quello che, già nel 1976 David Bowie con The White Duke e nel 1979 Roger Waters con Pink avevano messo brillantemente in scena: l’idea di una rockstar, con un pubblico, anche molto vasto e idolatrico, che prende le sembianze i modi e i linguaggi di un capo nazi-fascista per relazionarsi con lo stesso. Se potevano sembrare eccessive le dichiarazioni dello stesso Bowie, quando definiva Hitler come “la prima rockstar”, assistere a concerti dei Laibach, come quello avvenuto allo stadio della Stella Rossa di Belgrado a inizi anni Novanta, avrebbe potuto creare reazioni ancora più conturbanti.

Infatti, dopo un’esibizione caratterizzata da costanti riferimenti all’estetica nazional socialista, Milan Fras, il frontman della band avrebbe concluso lo spettacolo pronunciando un discorso ferocemente nazionalista in lingua slovena, riprendendo i contenuti stessi del nazional socialismo e riportandolo sul palco senza alcuna ironia, senza eccedere, senza dare segnali di farsa.

Il pubblico rimase di sasso ma, anche in quel caso, la band non diede spiegazioni sull’intento desiderato, anche dopo l’espulsione dal Partito Comunista. Del resto, non ci sarebbero molte spiegazioni da dare per un gruppo in grado di suonare in Israele un inno palestinese o in di porre sotto osservazione, negli ultimi anni, il regime dittatoriale di Kim Jong-Un e la Korea del nord.

Per la cronaca, buona parte dei videoclip proiettati nel concerto del primo aprile scorso erano stati girati proprio in Korea del nord, la band è riuscita ad ottenere il consenso – caso unico – proprio per la propria vicinanza alle celebrazioni dittatoriali.

L’idea di fondo che (forse) sottende un gruppo che negli anni Novanta aveva creato nell’ NSK un vero e proprio stato sovranista a regime dittatoriale (con tanto di statuto, storia nazionale e riferimenti ben precisi frutto di un bizzarro revisionismo artistico) è quella di porre gli spettatori di fronte a uno specchio in grado di riflettere tutti gli eccessi della contemporaneità. In questo modo si induce chi ascolta a percepire quel sentimento del contrario privo di una verità unilaterale, senza ironia o la parodia, bensì incarnando tutte le storture e i paradossi che, in ultima fase, la società dei consumi produce costantemente.

Ed è proprio da qui che iniziava il concerto romano dello scorso primo aprile presso il Teatro Parioli di Roma. In apertura, dopo un ingresso lento, solenne e molto teatrale, una splendida Marina Mårtensson, voce femminile della formazione attuale – subentrata momentaneamente alla glaciale Mina Špiler – apriva l’esibizione proponendo una versione insolita di The Sound of Music il classico reso celebre da Julie Andrew negli anni Sessanta per il film-musical “Tutti insieme appassionatamente”.

La prima domanda da porsi è: perché in un concerto industrial si inizia con una canzone considerabile manifesto di un boom economico, di un benessere, di un sistema politico ben distante da quanto detto poc’anzi? La prima risposta la si ritrova nella lingua, l’inglese. I Laibach, negli ultimi anni, hanno proposto canzoni in lingua slovena, Koreana, Italiana e Inglese, enfatizzando la verve linguistica dei vari dittatori che, nelle diverse epoche, hanno fatto leva su di queste per la loro comunicazione. La scelta dell’Inglese invece vuole smascherarne l’ipocrisia della parola pop per eccellenza. Infatti, su loro stessa ammissione, cantare canzoni pop può essere funzionale solo nella misura in cui lo strumento utilizzato sia una lingua morente: l’Inglese “è la lingua degli americani che uccidono tutto quello che toccano”.

E quindi la dolce voce di Julie Andrew si trasforma in quella di Marina Mårtensson con un tono più sontuoso, freddo e straniato ma celebrativo di qualcosa di mai rivelato. La cantante si presenta sul palco in una mise anni 30’, ondeggiando, con uno sguardo privo di vita, come invasata, simulando una sorta di marcia militare lenta e deformata. Ma per deformare ulteriormente il sogno americano c’è bisogno della voce di Milan Fras che sale sul palco con una lunga tunica bianca e il suo – immancabile – copricapo di ispirazione faraonica (altro simbolo di potere “morente).

E proprio il timbro vocale del leader della band è un altro di quei fenomeni difficilmente spiegabili. Coerentemente con la poetica dei Laibach, è impossibile capire se quel modo di cantare sia frutto di una parodia o di una pasta vocale particolarmente profonda. Fras infatti, emette suoni gravi e gargantueschi, accennando note appena stentate e con un’estensione vocale quasi inesistente ma, allo stesso tempo, una potenza troppo elevata per un cantato quasi sussurrato.

E in questo modo il primo set del concerto si sviluppa alternando la voce spaziale, conturbante e straniata della Mårtensson a quella di Fras: una dimensione mista in cui immagini – proiettate sugli schermi del Teatro Parioli – musiche e voci, si mescolano in un unico connubio pieno di contraddizioni che nel loro insieme tolgono all’ascoltatore il potere di ogni risposta e possibilità di commento. Si passa dall’elogio alla società dei consumi di “My Favourite Things” – con tanto di proiezioni di caramelle di ogni forma a tinte colorate e la voce grave di Fras che nella veste di un bambino bulimico rende il tutto così assurdamente reale –; fino alle deliranti celebrazioni delle marce dittatoriali della Korea del nord di “Maria-Korea”.

Videoclip che presentano file immense di soldati nordcoreani – moltiplicati all’infinito da un collage in stile Andy Warhol – accompagnano testi in varie lingue in cui, pur essendo impossibile comprendere il senso della parola, è il valore ipnotico e persuasivo della stessa a trionfare. Musicalmente invece, c’è un po’ di tutto, dalle avanguardie al rock n’roll, dal country all’industrial nudo e crudo.

I suoni, sempre e rigorosamente elettrici, sono saturi e potenti, con una band costituita da due sezioni di tastiere e synt di Rok Lopatič e Luka Jamnik, la chitarra di Vitja Balžalorsky – suonata prevalentemente con un archetto da violino – e la batteria di pelli di Bojan Krhlanko.

Dopo un primo set colmo di spunti di riflessioni difficili da connettere tra loro e di una qualità sonora del tutto pressocché perfetta, è la seconda parte del concerto a essere incentrata prevalentemente su un repertorio industrial pesante. Percussioni profonde, muri di suono e lunghi tappeti strumentali sono lo spazio in cui Milan Fras – ora in divisa – giganteggia come unico cantante in scena per questo set.

Come un lungo incubo in cui lo spettatore vede proiettato, nelle tonalità gravi e marziali, le storture insensate del proprio mondo, si assiste a una mezz’ora di suono totale, denso di cluster cromatici così estremi da far accapponare la pelle in più di un’occasione mentre lo sguardo fiero di Fras si mescola a quella delle luci che ne rendono quasi irreale la sagoma. Non c’è mai il contatto con il pubblico, se non per “ordinare” una sorta di applauso che sembra irridere la sala che, canzone dopo canzone, risulta più convinta dallo spettacolo.

Il terzo set torna con toni più sereni, Fras cambia di nuovo uniforme, si presenta in canotta con il petto villoso, quasi a parodiare l’idea del macho Hollywoodiano che, per certi aspetti, tenta di incarnare in questa fase del concerto. Torna sul palco anche Marina Mårtensson, del tutto trasformata nell’aspetto, mostrando l’imponenza del suo fisico che, insieme a una voce non meno imperiale del primo set, restituisce al pubblico una nuova idea di regime, sempre più imperialista e dal costume filo-americano.

Ed è la terza sezione del concerto a presentare, dopo quasi due ore, i primi cenni di ironia. Dopo una stralunata versione di “Sympathy for the Devil”, con i Rolling Stones rappresentati sugli schermi come una band-Gestapo, è proprio la Mårtensson a trascinare il gruppo verso il lungo bis finale, accompagnando con uno strumming convinto di chitarra acustica – primo strumento non elettrico della serata – una lunga ballata folk americana, ennesimo paradosso. Indossando cappelli da cowboy texano, mentre sullo schermo scorre il videoclip di un Fras/Super Mario che cavalca un missile a forma di pene, si chiude un’esibizione densa di suono, visioni disturbate e tante provocazioni in grado di suscitare riflessioni incompiute.

Percorrendo in modo trasversale le ideologie e le diverse estetiche del controllo globale e, allo stesso tempo, i diversi generi musicali colorati di un carattere sonoro ben riconoscibile,  i Laibach si propongono, ancora oggi, come una delle band più interessanti del panorama internazionale. Certamente non si tratta di un gruppo immediato che tuttavia riesce a convincere e imporre la propria personale proposta a un pubblico che, tra soddisfazione e stupore, si trova di fronte a uno degli emblemi più interessanti, in musica, della complessità della società dei consumi pur distanziandosene radicalmente.

 

Matteo Palombi

— Onda Musicale

Tags: Metal/Rock/Pop/Country/Matteo Palombi
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