A pochi giorni dal primo ascolto, scrivere di un disco come WesternStars di Bruce Springsteen può essere un’impresa abbastanza ostica.
Prima di tutto perché ci si sta confrontando con un vero e proprio gigante quale è Bruce Springsteen, e perciò le parole devono essere pesate in proporzione alla mole dell’oggetto di riflessione. In secondo luogo, perché, per molti aspetti, ci si trova spiazzati di fronte a un lavoro così bello, così riuscito e – paradossalmente – così nuovo, pur portando la firma di un signore che di anni ne ha 69, non propriamente un esordiente.
Chiariamoci, non che uno come il Boss debba per forza tirar fuori lavori triti e ritriti infarciti di autocitazioni e celebrazione di fasti passati, ma spesso quando un ritorno sulle scene è presentato con tanto clamore, la delusione è pronta a saltarti addosso da dietro l’angolo in cui si era nascosta. E, in effetti, proprio l’ultima fatica inedita del frontman del New Jersey – quell’High Hopes il cui singolo era stato sparato fino alla nausea in tutte le radio – sembrava trasmettere il ritratto di un autore in piena fase discendente, che cercava nuovi linguaggi per tenersi a galla in un mercato discografico che non gli apparteneva più, perlomeno non quanto quello dei concerti dal vivo. E da lì, per forza di cose, si riparte nell’ascoltare questo nuovo lavoro, con la convinzione di trovarsi di fronte al prodotto di una rockstar dall’impareggiabile talento nel domare e fomentare folle negli stati, ma dall’esaurita energia creativa in studio.
E invece, e per fortuna, questo Western Stars si presenta con tutt’altro tipo di premesse, e non ci vuole molto per capirlo. Lontano dalla sua storica E Street Band e mantenendosi ben distante dal sound virulento del Boss dei grandi stadi, questo Springsteen indossa panni totalmente nuovi, non meno sporchi di quelli che lo hanno fatto amare da molti, ma forse impolverati di un’atmosfera e di un vissuto non così frequentemente mostrati. E infatti cos’è Bruce in questo disco se non l’autostoppista della prima canzone,“Hitch Hikin’”, mentre alza in alto il pollice sul bordo di un’arida strada della West Coast, con voce solitaria su un leggero e flebile ritmo di chitarra e banjo? “Thumb stuck out as I go / I’m just travelin’ up the road”, canta il viaggiatore che, come si avrà modo di sentire, vacillerà tra la visione trasognante di un’America che c’è ma sembra non esserci, e un passato pesante alle spalle.
Un lungo percorso di circa 50 minuti tra mediocri uomini ordinari del nuovo continente, calpestando le orme, gli echi e i lasciti di vecchie glorie del pop americano. Infatti, lo Springsteen che si ascolterà in questo disco, più che riferirsi a sé stesso, o alla consueta tradizione folk rock, sembra dipingere la sua America attraverso riferimenti a un passato musicale che potrebbe andare da Billy Joel a Tom Petty, dal Tom Waits più romantico, fino al Dylan narratore della “poesia del tempo immemorabile”. E di tempo immemorabile o di tempo non presente sembrano intrisi i bellissimi passaggi sonori che con archi, chitarre e Lap Steel, prendono il posto degli affollati mix dello Springsteen più famoso.
Paesaggi aperti, scorci d’America quasi cinematografici, riescono a condurre l’ascoltatore verso una dimensione più intimista del cantante americano che, dall’alto della sua carriera, non rinuncia a porsi domande. È un viaggiatore intento a cercare suoni e percorsi nuovi, a ritrovare sé stesso, smarrito in quegli incalcolabili spazi descritti nelle 13 tracce che compongono quest’ultima fatica.
E così si giunge alla bellissima “Wayfarer”, con un Bruce viandande di città in città che si contrappone al resto del mondo intento a dormire in pantofole o a contare le pecore nel dormiveglia. Lui che può solo contare il moltiplicarsi delle strisce bianche nei suoi occhi, mentre attraversa le immense autostrade americane. La chitarra acustica diventa protagonista, intima compagna di una voce grossa, matura, ma mai esagerata, che lancia l’ascoltatore verso una prima intensa apertura di fiati. “Some find peace here on the sweet streets, the sweet streets of home / Where kindness falls and your heart calls for a permanent place of your own”, dichiara nei primi versi della canzone il “wayfarer” alla ricerca di un posto da chiamare casa. E in questo viaggio si passa dalle strade polverose, ai cavalli dell’immenso sud-ovest – come quello furente che occupa la bellissima copertina dell’album – fino a quel treno il cui passo ritmato è simulato dalle percussioni che introducono “Tucson Train”.
E qui con un’apertura di archi, degna dei migliori film della frontiera, si giunge fino in Arizona con il racconto di una vita comune in cerca di riscatto, di una nuova possibilità – “I come here looking for a new life” – e la speranza di rivedere la propria lei per un nuovo futuro insieme – “Just to show her a man can change” –. Mentre, con il treno di percussioni, il pezzo sfuma via dopo l’intenso e speranzoso “Here she comes” finale.
“Western Stars”, invece, richiama nuove suggestioni cinematografiche; grazie al mix equilibrato di una delicata chitarra acustica e quella slide, ricca di eco, che non può non proiettare chi ascolta verso ampie divagazioni sonore e visive. La voce di Springsteen, stavolta, interpreta quella di un nuovo alter-ego: un vecchio attore di film Western dei tempi di Ford e John Wayne. Anziano, stanco e privo di una direzione, di un significato; vive nell’illusione di un passato che nessuno – nemmeno quel Viagra, portato dalla truccatrice dei primi versi – potrà risvegliare. Ma le stelle dell’ovest brillano ancora, e con loro nuovi archi e violini, così la speranza, il ricordo e la pellicola possono continuare a girare tra una bottiglia di gin e l’altra. “Here’s to the cowboys, the riders in the whirlwind / Tonight the western stars are shining bright again”, uno dei pezzi più poetici e malinconici dell’intero disco.
Subito dopo si passa in territori più noti e scanzonati. Infatti, “Sleepy Joe’s Caffè” si apre con un ritmo andante basato su interessanti intrecci di fisarmonica e banjo, per poi procedere, sempre di più, verso i consueti mix saturi di strumenti alla E Street Band. Il pezzo però non è dei più scontati, l’intermezzo, soprattutto, vede contrapporsi dei fraseggi di organo Hammond ai ben più poetici archi, spezzati dal suono martellante di pianoforte che lancia la canzone verso una nuova esplosione di fiati molto suggestiva. Ma non è il Boss più sfacciato e duro a voler tornare. Anzi, “Drive Fast (The Stuntman)” è uno dei pezzi più introspettivi tra quelli presenti in scaletta. Si ripresenta, infatti, l’acustica iniziale – che stavolta pare strizzare l’occhio allo Springsteen di Nebraska – come una sorta di reprise tematico e musicale di “Wayfarer”.
E infatti, dopo il viandante e il vecchio attore, è un nuovo alter-ego del cantante americano a essere protagonista di questa bellissima traccia. Springsteen ripercorre le vicende di uno stuntman che ha passato tutta la vita a premere sull’acceleratore, ignorando lo schianto imminente. Molto poetici, anche grazie a un canto umano profondo, i versi del ritornello: “Drive fast, fall hard, I’ll keep you in my heart / Don’t worry about tomorrow, don’t mind the scars / Just drive fast, fall hard”, quasi una dichiarazione di intenti di quella che deve essere stata la vita per uno come il Boss. La canzone si apre in più punti a pensieri e suoni vaghi e crepuscolari, anche grazie al ritorno della Lap Steel nel mezzo della traccia, prima di un pianoforte, ricco di eco, e degli archi. La musica scorre via lasciando un nodo in gola dopo gli ultimi versi: “I got two pins in my ankle and a busted collarbone / A steel rod in my leg, but it walks me home”, una sorta di epigrafe a futura memoria.
“Chasin’ Wild Horses”, invece, è una ballad vera e propria che vede come protagonisti una voce in posizione centrale, la chitarra acustica e un sinistro contrabasso suonato con l’arco. È un pezzo che cresce, richiamando con la musica il concetto di libertà, sogno, speranza, descritto dal testo. Con il banjo e la batteria molto sfumata si giunge in territori nuovamente cinematografici e fortemente evocativi. Apprezzabili i colpi decisi di basso e grancassa che trasmettono la dimensione di profondità e immensità del paesaggio costantemente evocato, che esplode nelle orecchie e negli occhi con l’ennesima comparsa degli archi. Il pezzo poi torna scarno e flebile, nella dimensione intimista con cui si apriva, per poi risalire in alto e in largo con l’intero insieme di strumenti, fino a un delicato ed emozionante fraseggio solista di Lap Steel Guitar con cui sfuma via. Altra perla.
A questo punto del disco, il racconto sonoro dei Western Stars si fa sempre più trasognante, lucida espressione del modo di conciliare prosa e passione, poetico ipotetico con l’aspro vivere quotidiano. La Sundown che da titolo alla canzone è una sorta di non luogo, un’utopia sonora in ascendere che vede la sua massima espressione sul bellissimo contrasto tra la voce grave e solenne di Springsteen e i cori di voci bianche appena accennate sul verso “Come Sundown”. Godibili anche i “shanna-na, shalla-lalla” – molto teeny bop – che si mescolano con i lenti e sontuosi fraseggi di chitarra.
E mentre il finale di “Sundown” sembra richiamare le atmosfere del Bruce più giovane ed energico, con vaghi fraseggi polistrumentali alla “Born to Run”, la traccia successiva sembra una piccola e ben costruita canzone-citazione dylaniana. “Somewhere North of Nashville” è un’altra ballad caratterizzata dalla voce – che appare nelle prime battute molto ispirata a quella del premio nobel –, una bellissima chitarra acustica su cui si struttura il pezzo, e la graduale aggiunta della chitarra slide e del piano. Un ritratto del Nord America rotondo ma dalla forte impostazione impressionistica. Piccola perla dalla durata limitata che lancia verso il trittico finale.
E infatti, “Stones” è uno dei pezzi più riusciti e, probabilmente, anche la performance vocale più interessante all’interno del disco. Molto bello l’introduzione sontuosa degli archi per poi lasciare spazio a versi significativi e dalle metafore efficaci: “I woke up this morning with stones in my mouth / You said those were lies you told me”, un’immagine che richiama, nuovamente, l’idea del viaggiatore disperso che ingoia polvere e sassi, speranze e delusioni.
Nella seconda metà della canzone la traccia si fa apprezzare per degli intrecci vocali, molto evocativi, che anticipano un piacevole intermezzo di violino e pianoforte. Pezzo raffinato. Quello successivo, invece, “There Is go my Miracle” è forse la canzone più orecchiabile e memorizzabile dell’intero disco, a causa di un senso musicale molto sviluppato e di un ritornello molto pop che, tuttavia, a tratti fa perdere la dimensione sognante acquisita dall’album da qualche pezzo. Il testo, di sé, è abbastanza semplice e gioca concettualmente sul potere salvifico e miracoloso dell’amore.
Con “Hello Sunshine” si torna al viaggio e forse alla concretezza, con un incalzante ritmo di 2/4 che sale sempre di più di intensità, fino a dare l’impressione di voler raggiungere la voce profonda e pacifica che domina la canzone. Si tratta di un pezzo disteso, che si fa apprezzare per dinamica, delicatezza, melodia e una certa poeticità delle immagini evocate da questa sorta di dialogo tra il viandante e il sole al tramonto. Ancora più delicata e intima è la canzone con cui si chiude, con tono malinconico, l’intero disco. “Moonlight Hotel” scorre via lievemente, con la voce di Springsteen calma e nostalgica che si sorregge fragilmente sopra una struttura musicale e ritmica minimale e appena sussurrata, concludendo il disco come un ideale soffio di vento che carezza il sonno del viandante ancora alla ricerca di una direzione.
Quello di Western Stars è uno Springsteen crepuscolare, suggestivo e riflessivo che cerca nella dimensione del meta-viaggio musicale la propria nuova espressione artistica. Lo fa con uno dei suoi ultimi dischi più riusciti (azzarderei uno dei migliori in assoluto), distanziandosi da un immaginario in cui, probabilmente, era rimasto ingabbiato per troppo tempo, rendendosi – per la prima volta dopo anni e anni – più uomo e meno rockstar. Un disco pieno di pietre preziose – “uno scrigno”, così lo aveva descritto lui stesso – in grado di illuminare bellissimi paesaggi sonori, senza cercare la hit o il capolavoro. E forse la cosa più bella sta proprio in questo, nella bellezza dell’opera nella sua complessità.
Quando la forma album sembra messa da parte da un’industria musicale sempre più sforna-singoli, Springsteen tira fuori un grande disco che proprio nell’essere un insieme di canzoni – un canzoniere pop –, visioni e riflessioni, riesce a emozionare come nessun altro riff di chitarra, di fronte a migliaia di persone, avrebbe potuto.