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Velvet Underground, il rock diventa arte

“L’altro giorno stavo parlando con Lou Reed, e mi ha detto che il primo album dei Velvet Underground ha venduto solo 30mila copie nei primi 5 anni… È stata un’incisione talmente importante per così tante persone. Sono convinto che ciascuno di quei 30mila che l’hanno comprato abbia fondato una band.”

A parlare è il grande Brian Eno, e il suo pensiero riassume alla perfezione quello che il disco d’esordio dei Velvet Underground rappresenta per la storia del rock. Un clamoroso insuccesso, innanzitutto; almeno per i numeri del mercato discografico di fine anni ’60. Ma anche una svolta per la musica rock, pari alle sperimentazioni dei Beatles, ai testi da alta letteratura di Bob Dylan e al superblues dei Cream. I Velvet Underground, più di ogni altra band, traghettarono la musica rock dalle placide acque delle classifiche a quelle agitate dell’arte vera e propria. Il disco, in settimane di permanenza, si arrampicò al massimo al numero 182 delle classifiche, eppure è uno dei pochi che oggi ritroviamo in tutte le graduatorie dei dischi che hanno fatto storia, quasi sempre al primo posto tra le opere prime.

Un po’ come fecero i vari Fontana, Rothko e Manzoni nell’arte visuale, i Velvet Underground travalicarono il concetto di gradevolezza della musica, a favore di qualcosa di più oscuro, a tratti di difficile digeribilità, ma sempre pienamente compreso nei confini dell’arte più concettuale; non a caso, almeno all’inizio, loro nume tutelare fu Andy Warhol, il più grande nome della Pop Art.

La storia dei Velvet Underground nasce dall’incontro di quattro individualità tanto forti quanto disturbate; Lou Reed è un giovane disc jokey di New York. È un giovane dall’aria del bravo ragazzo, di buona famiglia e appassionato di musica; tuttavia fin da giovanissimo la sua psiche è segnata dalle discutibili idee dei genitori sulla sua educazione; forse per contrastare la sua bisessualità, o forse perché Lou manifestava disturbi comportamentali e depressione, fatto sta che viene più volte sottoposto a elettroshock. Un’esperienza che – nelle sue parole – non riuscirà mai a superare completamente. Amico e allievo prediletto di Delmore Schwartz, un poeta dalla fama – e la morte – precoce che lo prende in simpatia prima di perdersi nel vortice dell’alcol, durante un corso di scrittura creativa tenuto da quest’ultimo, conosce Sterling Morrison, futuro bassista e chitarrista ritmico della band.

“Delmore sosteneva che le parole della musica rock’n’roll fossero la cosa peggiore da lui mai udita: – ricorda Morrison – vera e propria spazzatura. Il suo pensiero contribuì non poco a influenzare la scrittura di Lou, dandogli ancora più voglia di andare al di là dei canoni stilistici che avevano animato sino ad allora il rock”.

John Cale era invece un bizzarro musicista classico gallese; ammiratore di Stockausen e allievo di John Cage, era stato cacciato dal Royal College of Music di Londra dopo alcune esibizioni poco consone: in una aveva fatto a pezzi il pianoforte con un’ascia. Arrivato negli USA con una borsa di studio, iniziò a suonare la viola elettrica con La Monte Young e conobbe Lou Reed a un party, facendo subito lega. A completare l’organico dei The Primitives – così si chiamavano all’inizio – arrivò la batterista Maureen Tucker; una ragazza dietro le pelli era una grande rarità all’epoca, a cui si aggiungeva lo stile selvaggio e tribale della giovane.

Dopo aver iniziato a suonare in eventi alternativi, in cui affiancavano la loro musica alla proiezione di film underground, i ragazzi decisero di cambiare nome, prendendo ispirazione da una rivista soft porno notata in un’edicola da Angus MacLise, il batterista precedente all’ingresso nella band di Tucker. La rivista si intitolava Velvet Underground.

Il complesso rimedia un ingaggio al Cafè Bizarre, locale del Greenwich Village: una sera – nonostante il proprietario glielo avesse vietato – eseguono Black Angel’s Death Song, brano dai contenuti talmente scabrosi da valere loro il licenziamento su due piedi. Ad ascoltarli c’è però Andy Warhol, e il destino prende una delle sue svolte. L’artista si innamora di quella band di esistenzialisti viziosi e li vuole nella sua Factory; sarà lui a produrre il loro primo album, a disegnare la celebre copertina con la banana e ad affiancare ai ragazzi l’algida voce della bellissima modella tedesca Nico.

Il disco si apre subito con un brano destinato alla leggenda, la cui apparente leggerezza stride con la nomea di band scandalosa dei Velvet: Sunday Morning. Si tratta di una ballata dolce e melodica, che in teoria avrebbe dovuto cantare Nico; Lou Reed però è irremovibile, la domenica mattina dopo una notte di droghe e stravizi vuole cantarla lui, sebbene la sua voce sarà talmente filtrata e resa eterea da risultare quasi irriconoscibile.

A seguire arriva il primo pugno allo stomaco: “I’m Waiting For The Man. L’uomo a cui allude il titolo – secondo la precedente definizione di Kerouac – è lo spacciatore; chi lo aspetta, con 26 dollari in mano, è il drogato, un ragazzo che si spinge nel quartiere malfamato, e l’ambientazione è Lexington Avenue, ad Harlem. Su un boogie ossessionante, dominato da chitarre elettriche proto punk, la storia narrata da Reed come se fosse la più squallida normalità, è un tremendo contraltare alle filosofie hippie che dall’altra parte degli USA predicano l’uso delle droghe per allargare la coscienza.

Si torna su atmosfere rilassate con Femme Fatale, il primo dei tre brani cantati magistralmente da Nico. E non a caso il testo narra di una dark lady, che non si fa scrupoli a usare e gettare via come oggetti gli amanti del momento. Pare che la canzone, da un’idea di Warhol, fosse dedicata alla modella Edie Sedgwick, fantomatica destinataria già della poco lusinghiera “Like a Rolling Stone” di Bob Dylan. La canzone, a tratti quasi una bossa nova con coretti doo wop, offre una prestazione misurata della voce allo stesso tempo suadente e altera di Nico.

Si torna in un vortice più cupo che mai con la successiva, leggendariaVenus in Furs. Ispirato all’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, scrittore dal cui nome viene non a caso la parola “masochismo”, il brano è sostenuto dal bordone di viola elettrica di John Cale e da una chitarra elettrica dall’incedere ipnotico. L’inquietante grancassa percossa da Maureen Tucker precipita il tutto in un’atmosfera da rituale oscuro, alimentato anche dai sussulti di un sitar elettrico. Il canto di Lou Reed, quasi a declamare, è quello di un sacerdote di qualche culto ancestrale. Un brano che inquieta oggi, ma che all’epoca era probabilmente qualcosa che suonava fuori da ogni regola.

Run, Run, Run, la storia di Teenage Mary, Margarita Passion, Seasick Sarah, e Beardless Harry, quattro delinquenti forse transessuali, nel mazzo fa quasi la figura del brano leggero. Musicalmente molto vicino a certi passaggi blues del Dylan elettrico, offre un assolo di chitarra dal suono lancinante che si arrota su giri blues ma con un’attitudine che è già garage punk; un brano che farà scuola su generazioni di band che verranno dopo, e i cui riverberi si sentono benissimo ancora oggi in certo revival garage.

All Tomorrow Parties” è il secondo brano cantato da Nico e pare fosse il preferito di Andy Warhol; forse perché, al di là dell’apparenza di riscrittura della favola di Cenerentola, era un ritratto delle dinamiche di alcuni personaggi della Factory. Il pezzo è splendido, col piano “preparato” di Cale che suona sempre la stessa nota e la voce incredibilmente convincente di Nico che pare la nemesi di band come i Jefferson Airplane e di tutto l’allegro movimento psichedelico; la chitarra di Reed suona quasi come il jingle jangle dei Byrds, ma qualcosa di cupo e malato si agita dietro la cristallina melodia e i registri bassi di Nico: è il malessere che fa da sottofondo a tutto il disco e pervade a questo punto anche il fruitore, rendendo l’ascolto una esperienza non sempre piacevole ma necessaria. Arte allo stesso puro, capace di scuotere la coscienza di chi vi si accosta. “Stanotte voglio morire con voi!” – griderà Nico al pubblico durante un’esecuzione dal vivo.

E quando la cupezza del disco pare aver raggiunto gli abissi, ecco Heroin. Il brano descrive in modo crudo e privo di qualsiasi giudizio morale l’esperienza di un drogato. I cambi di ritmo, da un delicato arpeggio che pare echeggiare “Sunday Morning” a una frenetica accelerazione, accompagnano la normale esperienza dell’eroinomane, dal buco della siringa, al sangue che viene tirato, fino alla sensazione di dissoluzione di qualsiasi parvenza umana che pervade il protagonista.

Ho preso una grande decisione, voglio provare ad annullare la mia vita” – recita il testo, per poi arrivare alla sensazione dell’eroina che entra in circolo: “quando l’eroina è nel mio sangue e il sangue va alla testa, sto meglio che se fossi morto e ringrazio il vostro Dio di non essere cosciente”. Nessuno si era mai spinto a questo punto in una canzone di musica leggera. E tutto quello che verrà dopo sarà imitazione; verrà – per l’appunto – dopo.

Si va verso la chiusura con There she goes again, pezzo che nell’assembramento di capolavori fa la figura del brano minore, I’ll be your mirror, canzone d’amore dalle atmosfere finalmente delicate e che Reed scrisse apposta per la voce di Nico. E chissà, forse non solo, visto che la tedesca intrattenne una breve relazione col musicista di New York.

La chiusura è affidata a un’accoppiata che dà libero spazio alle istanze di John Cale, specie a quelle più concrete e rumoristiche, favorite dallo studio di Stockausen.Black Angel’s Death Song è il pezzo che costò alla band l’ingaggio al Cafè Bizarre, e in effetti non si stenta a capire come il brano non fosse l’ideale per una serata al pub. Col sostegno delirante degli archi di Cale, Reed declama con piglio dylaniano il punto di vista filosofico di un fantomatico angelo nero, con un fluire di immagini e suoni non sempre perfettamente comprensibili.

L’ultimo pezzo è European Son, dedicata al mentore Delmore Schwatrz. Dopo una parte iniziale abbastanza semplice, tra il blues di Bo Diddley e il beat degli Yardbirds, il brano prende una deriva quasi free jazz. Il basso di Morrison e le percussioni tribali della Tucker sono ossessionanti, la chitarra di Reed si aggroviglia su frasi dissonanti, con un feedback violento. All’insegna di un crescendo sempre più rumoristico, il brano va avanti per oltre sette minuti di sperimentazione pura e a tratti quasi insostenibile; ma se si è arrivati a questo punto, ormai non è un mistero che il disco sia un’opera piuttosto impegnativa.

Si chiude così l’album più rivoluzionario della storia del rock; un lavoro che destruttura e ripensa tutto ciò sentito fino ad allora e che influenzerà in modo pesantissimo quello che verrà dopo, fino ad oggi.

Una bella rivincita per un lavoro rumoristico, che all’epoca – nonostante l’amore subitaneo della critica – di rumoroso ebbe solo il tonfo commerciale.

  Andrea La Rovere – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Lou Reed, Bob Dylan, Andy Warhol, Brian Eno
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