Lo scorso 18 Settembre 2020 cadeva uno dei tristi anniversari della Storia della Musica: esattamente cinquant’anni fa moriva uno dei più straordinari chitarristi, o meglio, geni mai esistiti sulla faccia della Terra.
Johnny Allen Hendrix, nato nel Novembre 1942 a Seattle e dal 1946 chiamato James Marshall, per tutti noto come Jimi, se ne andava troppo presto, a soli 27 anni. Se ne andava al culmine di una fama che si era meritato con una manciata di dischi e con una raffica di sbalorditive esibizioni dal vivo. Dall’anonimato come membro di band più famose, la sua ascesa era iniziata nella Londra del 1966, quella Swinging London che era già stata stravolta dalla rivoluzione musicale degli anni precedenti e che si sarebbe evoluta ancor più rapidamente negli anni che mancavano alla fine del decennio.
La sua creatività aveva trovato la giusta dimensione nel power trio della Jimi Hendrix Experience, costituita con Mitch Mitchell – portentoso batterista, ex collega di Georgie Fame – e con Noel Redding – schivo ma abile bassista, ex di The Loving Kind. L’alchimia, creata da Chas Chandler – ex Animals e ora neo-manager del nuovo gruppo – aveva prodotto album esplosivi come Are You Experienced? (Maggio 1967), Axis: Bold As Love (Dicembre 1967) e Electric Ladyland (Settembre 1968, generalmente considerato la vetta del gruppo).
Le estenuanti sessioni di quest’ultimo disco – pubblicato come doppio LP (esattamente come il White Album) – avevano visto Hendrix dare sfoggio della sua pignoleria in fatto di creazione artistica: d’altronde eravamo nel pieno di quel periodo in cui i gruppi e i singoli artisti avevano privilegiato lo studio di registrazione come un paradiso dove chi creava lo poteva fare prendendosi tutto il tempo necessario (o quasi) per modellare le proprie composizioni fin nel più piccolo dettaglio, a meno che la casa discografica non spingesse alla pubblicazione per via dei costi di produzione sempre più elevati. Il perfezionismo nella creazione di Electric Ladyland non aveva logorato solamente la pazienza di Chandler, che se ne andò mandando Hendrix a quel paese, ma anche il rapporto di quest’ultimo con Redding, che reagì anch’esso piantando in asso il chitarrista a Giugno 1969.
Hendrix non si fermò davanti a tale defezione, dal momento che continuò a registrare nuovi brani in compagnia del fedele Mitchell e dell’amico di vecchia data Billy Cox.
Il suo 1969 risalta non solo per via di una febbrile attivitàche lo spinge ad elaborare nuove soluzioni, in uno sperimentalismo compositivo e tecnico che scavalchi ampiamente i risultati raggiunti sino a quel momento. Risalta anche per il fatto che lui, nonostante sia osannato a livello mondiale come il dio della chitarra, non si sente appagato dalla mutevole girandola di musicisti che lo affiancano nei numerosi progetti estemporanei, come nel caso di quello presentato a Woodstock con il nome di Gypsy Sun And Rainbows, o come quello che si esibisce al Fillmore East nel Capodanno 1969-1970, esperienza da cui verrà tratto l’ultimo disco pubblicato in vita dall’artista, Band Of Gypsys (25 Marzo 1970).
Hendrix fatica a trovare la propria dimensione ideale. A rincarare la dose ci si mettono di mezzo il suo manager Michael Jeffery (non solo per la questione delle royalties, ma anche per la ragione basilare per cui creare musica e gestire gli affari sono due cose radicalmente diverse), la relazione con Kathy Etchingham (che presumiamo non sia stata facile), l’incalzante ritmo delle tournée che lo portano da una parte all’altra del globo. Tutte cose che acuiscono il suo stress, la sua insicurezza e in ultima il suo consumo di droghe. Una situazione tutt’altro che invidiabile, soprattutto se ci si è dentro. La fama vista dall’esterno fornisce al pubblico un’immagine di segno radicalmente opposto.
Il 1970, aperto – come si è detto – dall’esperienza di New York, si stava rivelando l’esatta copia dell’anno precedente.A pensarci bene, non tutto era negativo: il 15 Giugno di cinquant’anni fa si teneva la prima sessione presso lo studio di registrazione che lui stesso aveva concepito e fatto realizzare a partire dall’anno precedente, idea che era subentrata a quella di un nightclub. Si chiamava come il favoloso disco del 1968. Lo Studio A era ovviamente completo, dotato della tecnologia più avanzata disponibile all’epoca, mentre il B era ancora da ultimare. Nell’immediato ciò non era un problema, dato che l’artista poteva finalmente disporre di un paradiso appartato in cui creare musica in santa pace e senza dover sganciare cifre astronomiche per sedute prenotate (motivo per cui non era ammesso sprecare tempo con il cazzeggio).
Il lavoro sul materiale che avrebbe costituito il nuovo disco procedeva in maniera così incalzante che ad Agosto il lavoro da fare si concentrò pressoché sul completare le sovraincisioni e il mixaggio dei brani realizzati sino a quel momento.A fine mese, il 26 per l’esattezza, si tenne la cerimonia di inaugurazione degli Electric Lady Studios: in tale occasione vennero presentati in anteprima quattro canzoni, complete e rifinite sotto ogni aspetto. Dalle informazioni in nostro possesso sappiamo trattarsi di “Ezy Rider”, “Straight Ahead (Have You Heard)”, “Night Byrd Flying” e “Dolly Dagger”. Pezzi veramente straordinari, negli accordi, nella qualità sonora quanto nello stile, dimostrandosi in essi cheil Rock stava virando verso il Funky, uno stile che riconosciamo come uno dei marchi di fabbrica degli anni Settanta.
Per conoscere la storia di questo disco immaginario non perdetevi la prossima puntata.