I Genesis furono forse il risultato più popolare della favolosa stagione del rock progressivo britannico, secondi per successo solo ai Pink Floyd che, però, attraversarono il movimento senza sposarne mai del tutto intenti e dettami.
La loro idea di progressive mise d’accordo un po’ tutti gli appassionati di musica del periodo: i puristi del prog, per i quali i Genesis rispettavano perfettamente il canone del genere, ma anche gli ascoltatori meno smaliziati, affascinati dalla particolarità di una proposta che rimaneva per larghi tratti ampiamente fruibile. La voce e l’incredibile presenza scenica di Peter Gabriel, la grande pertinenza tecnica degli strumentisti, a partire dal chitarrista Steve Hackett, la personalità del braccio destro di Gabriel, Phil Collins, le citazioni colte nei testi e le strutture concept: i Genesis avevano proprio tutto per affascinare una platea assetata di novità come quella dei primi anni settanta.
E la storia di uno dei gruppi più colti del progressive non poteva che nascere in un ambiente tipico della borghesia più agiata britannica: la Charterhouse School di Godalming, nel Surrey. Si trattava di una scuola privata per famiglie benestanti, improntata a regole piuttosto rigide, esclusivamente maschile e votata alla tradizione.
Facile capire come fin da subito la band si basò su fondamenta bipolari: da una parte la ribellione del rock verso un ambiente tradizionale e ostile, dall’altra la cultura che comunque permeava la vita quotidiana dei giovani. Si formano inizialmente due complessi, nelle due diverse ali della scuola chiamate Lockites e Girdlestonites: gli Anon, composti da Mike Rutherford (chitarra), Richard McPhail (voce) Rivers Jobe (basso) e Rob Tyrell (batteria) e i Garden Wall con Tony Banks (pianoforte), Peter Gabriel (voce) e Chris Stewart (batteria). Anello di congiunzione tra i due progetti era Anthony Phillips, leggermente più giovane, che ebbe modo di suonare la chitarra in ambedue i gruppi.
Nel 1967 furono i soli Banks, Gabriel, Phillips, Rutherford e Stewart a continuare l’attività musicale, a causa di defezioni varie, e le due band si unirono in una ancora senza nome. In quel periodo si recò in visita alla Charterhouse School un ex allievo, divenuto nel frattempo un cantante dal promettente successo, Jonathan King. I musicisti in erba, giovanissimi e timidi, non avevano il coraggio di avvicinarlo e incaricarono un amico di tentare la consegna di un demo registrato in quel periodo. King fiutò subito il potenziale del gruppo e propose loro di firmare subito per la Decca un contratto capestro di cinque anni più altri cinque di opzione; per fortuna i ragazzi erano ancora minorenni e i genitori optarono più saggiamente per un anno di contratto; probabilmente, senza questa scelta, le cose sarebbero andate diversamente.
King insiste sul nuovo moniker – Genesis – e per far virare il sound verso sonorità al limite del pop, anonime e debitrici ai Bee Gees; il risultato della mania del controllo di Jonathan è un primo album, intitolato “From Genesis to Revelation” a tema religioso e fondamentalmente fallimentare. Il packaging e il titolo non fanno pensare a un disco rock e spesso l’album finisce tra gli scaffali dei lavori religiosi, inoltre il tema – la Genesi, ovviamente – è troppo pretenzioso e complesso per i giovanissimi musicisti. Risultato: 650 copie vendute e il subitaneo scisma con la Decca che – per la cronaca – si morderà per anni le mani, tanto da ristampare ossessivamente il primo disco con la speranza di lucrare sulla fama dei Genesis.
Senza contratto e svanito l’interessa di King, Gabriel e soci si ritrovano a fare la fame, dato che rifiutano gli aiuti economici delle proprie, agiate famiglie; il colpo di fortuna si presenta sotto le spoglie di Tony Stratton-Smith, numero uno della Charisma, che si innamora del loro nuovo suono più complesso e strutturato e permette così la rinascita del progetto. Da allora le cose saranno diverse, con “Trespass” che costituisce il primo mattone della cattedrale Genesis; a impressionare è il loro impatto live, con la presenza scenica di Peter Gabriel che inizia – un po’ per caso, un po’ per riempire le pause – a raccontare bizzarre storie e va avanti con i suoi celebri travestimenti che cambieranno molto nell’approccio alle scenografie del periodo. Una pervicace leggenda vuole che Peter e il suo gruppo, da subito molto popolari in Italia, si fossero ispirati inizialmente ai costumi di scena della band napoletana degli Osanna, effettivamente molto simili.
“Nursery Cryme” del novembre del 1971, con l’ingresso in formazione di Phil Collins e Steve Hackett, è il primo vero capolavoro della band e tuttora uno dei dischi più amati dai fan del periodo d’oro.
Siamo al 6 ottobre del 1972: quel giorno esce “Foxtrot”, il quarto album della band che si presenta subito con una copertina leggendaria, dipinta da Paul Whithead e che ritrae Peter Gabriel in uno dei suoi travestimenti più famosi, con la testa di volpe.
Per alcuni è il disco migliore del complesso ma, come sempre, tentare di stilare classifiche per delle opere d’arte risulta stucchevole; tra “Nursery Cryme” e “The Lamb Lies Down on Broadway”, passando per “Foxtrot” e “Selling England by the Pound”, i Genesis inanellarono una tetralogia di paurosa qualità tecnica e artistica. Ognuno può scegliere il preferito senza timore di dire una stupidaggine.
Il pezzo d’apertura, “Watcher of the Skies”, suggestivo già dal titolo e ancor più nelle atmosfere fantascientifiche, prende ispirazione dai racconti di Arthur C. Clarke, allora imprescindibili tra i giovani. Il brano venne concepito in maniera piuttosto casuale a Napoli, durante il tour di “Nursery Cryme” in Italia; Tony Banks e Mike Rutherford si trovavano sulla terrazza di un albergo e dall’alto ammiravano la città che, dalla loro visuale, sembrava quasi disabitata e idearono il testo che parla del pianeta dopo l’estinzione degli esseri umani, visto da curiosi visitatori alieni.
L’introduzione, maestosa e suggestiva, è a totale appannaggio del mellotron di Steve Banks, uno strumento che la band aveva ricomprato dai King Crimson, per poi cedere il passo a una ritmica ossessiva e accattivante. Il brano si sviluppa poi tra parti sinfoniche e svisate rock: il perfetto compendio del suono classico dei Genesis, tanto che il pezzo sarà adottato per anni come apertura dei live.
Si prosegue con “Time Table”, pezzo più classico e con un testo che riflette sulla decadenza inevitabilmente dettata dal passare del tempo. L’attacco ricorda molto certe cose dei Procol Harum, mentre nel ritornello esplode la vocalità davvero inconfondibile di Peter Gabriel. Un pezzo godibile, anche se a fare la storia sono altri brani di questo disco.
“Get ‘Em Out By Friday” è un’altra canzone che strizza l’occhio alla fantascienza per raccontare un dramma contemporaneo, quello degli sfrattati. Tra cambi di ritmo e duelli tra tastiere e chitarre, il brano è un rock trascinante con Gabriel che recita le varie parti – quasi come in un musical – cambiando registro vocale a seconda del ruolo. Una minisuite degna di stare tra le cose migliori del gruppo, un vero gioiello.
“Can Utility And The Coast-Liners” chiude la prima facciata in modo emozionante e suggestivo; la parte iniziale è totalmente acustica, con la voce di Peter Gabriel in primo piano e una melodia di grande delicatezza. Poco più di un minuto ed entrano in scena gli altri strumenti, in un crescendo epico; il tempo di un breve intermezzo acustico e il brano torna a crescere con una stordente cavalcata tastieristica, brevi interventi della chitarra e l’esplosione finale coi vocalizzi di Gabriel.
La seconda facciata si apre con lo strumentale “Horizons”, completamente acustico ed eseguito dal solo Steve Hackett. Si tratta di una rivisitazione della “Suite per violoncello solo BWV 1007” di Bach, con una resa di grande semplicità ed evocatività che fa venire in mente certi passaggi dei futuri Emerson, Lake & Palmer.
Il momento clou del lavoro è arrivato, la lunghissima suite “Supper’s Ready”, vera colonna portante del disco e pietra miliare dell’intero movimento progressive. La suite è divisa in sette movimenti che – in ossequio del canone del rock progressivo – mettono in relazione altrettante idee e ispirazioni. I temi sono ancora mistici e religiosi, forse suggeriti a Peter Gabriel da una bizzarra esperienza medianica vissuta assieme alla moglie. Siamo di fronte a oltre venti minuti in cui i Genesis si producono in tutto ciò che una buona composizione prog dovrebbe proporre: atmosfere suggestive, tecnica raffinatissima ma non fine a sé stessa, cambi di ritmo e passaggi tra momenti raccolti, intimistici e acustici, a crescendo strumentali dove ogni musicista ha modo di mettersi in luce.
È il rock progressivo dei Genesis, quello dove non è lecito aspettarsi chilometrici assoli di batteria e masturbazioni strumentali con virtuosismi tanto per il gusto di stupire; quasi una moderna opera, in cui ogni passaggio è concepito in maniera funzionale alla perfetta resa complessiva. Ciò non toglie che negli oltre venti minuti gli appassionati abbiano di che deliziare il proprio palato; il lavoro alla chitarra di Hackett è straordinario per varietà di timbri dello strumento e per l’assoluta indipendenza dai canoni del rock imperanti fino a quel momento. Non c’è traccia di blues e anche i passaggi più hard suonano distanti anni luce dal rock più tradizionale. Peter Gabriel è qui al suo meglio, passando dalle parti acustiche e quasi bucoliche a momenti hard rock, fino a passaggi da cabaret, dando prova di una duttilità vocale e di capacità interpretative che avranno pochi eguali nella storia del rock.
“Foxtrot” è l’anello di congiunzione tra “Nursery Cryme”, la sorpresa maggiore della loro discografia, e i successivi strepitosi successi mondiali; un disco in cui tutte le architetture sonore e le varie parti degli strumentisti sono in miracoloso equilibrio, come forse non era mai stato e come sarà poche altre volte. Un lavoro che – curiosamente – si arrampicherà in vetta alle classifiche italiane e solo al N°12 in patria.
Forse non “il” capolavoro della band, ma sicuramente un capolavoro imprescindibile per ogni appassionato di rock progressivo.