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All Things Must Pass: la transitorietà delle cose terrene secondo George Harrison [Seconda Parte]

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Le sedute di registrazione presero avvio il 26 Maggio, sotto la supervisione di Spector, coadiuvato dai due ingegneri del suono Ken Scott e Phil McDonald (conosciuti sin dai tempi dei Beatles).

Nel corso degli anni Sessanta il produttore americano si era costruito una solida fama per il fatto di aver inventato la celeberrima tecnica del “Wall of Sound” (letteralmente del “muro del suono”): sfruttando il riverbero della sala di registrazione – aspetto che conferiva ampio respiro al diffondersi del suono – il produttore schierava una vera e propria orchestra, articolata in numerosi elementi; determinati strumenti, come la chitarra, oppure la batteria, venivano suonati “raddoppiati” o “triplicati”, nel senso che gli accordi venivano eseguiti all’unisono, in sincrono, da due o tre chitarristi, batteristi, etc. Il sistema, pur nella sua semplicità, permetteva – insieme al riverbero dello studio – di accrescere la corposità, oltre che il respiro, del suono. Lo stesso Harrison, a distanza di trent’anni dallo storico lavoro discografico, aveva cambiato opinione sul Wall of Sound: se all’epoca del suo utilizzo poteva essere considerato come il Cinemascope (noi diremmo “la meraviglia del secolo”), col passare degli anni appariva addirittura eccessivo, ridondante.

La prima fase dei lavori si divise tra gli Abbey Road Studios e gli Apple Studios– a Savile Row – e durò sino alla seconda settimana di Giugno. In quest’ultima ambientazione, verso la fine dello stesso mese, si tennero le sedute di registrazione di due delle quattro composizioni strumentali collocate nel terzo disco (quello intitolato Apple Jam) cioè “Thanks for the Pepperoni”e “Plug Me In”. La notizia non è priva di rilevanza, dato che in tale periodo i musicisti coinvolti in queste registrazioni – mi riferisco ad Eric Clapton, Bobby Whitlock, Carl Radle eJim Gordon – diedero vita al supergruppo dei Derek and The Dominoes, creatura che ebbe vita assai breve, e che riuscì a dare alla luce solamente il colossale album Layla and Other Assorted Love Songs (uscito prima di quello di Harrison, cioè il 9 Novembre 1970).

Nel corso di un’intervista radiofonica a New York, Harrison aveva stimato che i lavori di realizzazione del disco dovessero durare all’incirca otto settimane (cioè due mesi), ma si sbagliava, per due motivi: Spector, produttore stravagante e con “qualche problema” con l’alcol (a detta del chitarrista inglese, doveva tracannarsi 18 bicchierini di brandy alla ciliegia prima di poter essere operativo), un bel giorno cadde ai Trident Studios, rompendosi un braccio. Con lui temporaneamente fuori combattimento, il compito di gestire la produzione del lavoro ricadde sul chitarrista, accrescendo il suo carico di lavoro; oltre a ciò egli doveva pure recarsi regolarmente a Liverpool per visitare sua mamma Louise French (n. 1911) a cui era stato diagnosticato un cancro: si sarebbe spenta il 7 Luglio. Il sommarsi di questi due fattori, a cui se ne aggiungeva un terzo – cioè la crescente infatuazione di Clapton per Pattie Boyd, moglie di George – rallentava enormemente il ritmo dei lavori, motivo per cui la EMI si preoccupava sempre di più per il crescere dei costi delle sessioni.

Nella cronistoria di All Things Must Pass, il 12 Agosto vide il completamento delle basi strumentali nonché delle prime sovraincisioni. A questo punto, Harrison inviò i nastri a Spector – ancora in via di guarigione – perché si facesse un’idea di come stava prendendo forma l’opera. Il produttore rispose il 19 Agosto con una lettera ricca di dettagliati suggerimenti circa ulteriori rifiniture dei brani nonché sovraincisioni (come le parti orchestrali). Per agevolare ulteriormente le operazioni da compiere, Spector suggeriva altresì di cimentarsi con la strumentazione dei Trident Studios, dotata di un registratore a 16 tracce (aspetto che consentiva un notevole margine di libertà nell’aggiunta di strumenti sui nastri: non dimentichiamoci dei salti mortali che bisognava fare con le macchine da 4 e 8 tracce).

L’ultima sessione di realizzazione del disco – durata dagli inizi di Settembre sino agli inizi di Ottobre– fu impegnativa tanto quanto le precedenti, dato che i brani dovevano essere completati con le parti vocali di George, con i cori, con alcune parti di slide guitar (dalla peculiare sfumatura a metà strada tra il sitar e la chitarra blues) e in ultima – cosa non meno importante delle precedenti – con le orchestrazioni di John Barham, di capitale importanza nel plasmare (insieme al Wall of Sound) il timbro dell’album. La fase finale del progetto fu dedicata principalmente al delicato compito del mixaggio. Inultima fu definitivamente messa a punto la scaletta dell’opera: su questo punto Harrison aveva espresso alcune perplessità, cioè se tutte le canzoni prese in considerazione fossero meritevoli di essere inserite nel lavoro definitivo.

Allan Steckler, managerdella divisione statunitense della Apple, colpitodal vedere così tanto materiale di qualità riunito insieme, consigliò ad Harrison di pubblicarlo senza esclusioni. Per quanto riguarda l’aspetto del prodotto, il triplo LP fu venduto in un cofanetto in cui i singoli vinili erano ciascuno nella propria busta. Tale tipo di confezione, oltre ad essere un pochino ingombrante, creava confusione nei venditori, dato che somigliava a quelle dei dischi di musica classica. La versione in cd, a cominciare da quella del 2001, condensa i dischi da tre a due. La copertina, la cui foto originale in bianco e nero fu scattata da Barry Feinstein, vede un George Harrison torreggiare su quattro gnomi collocati sul prato di Friar Park, la colossale casa dove si era trasferito in quel 1970, proveniente da Kinfauns. L’interpretazione più diffusa di tale scatto sottolinea come gli gnomi rappresentino i Beatles, identità dalla quale Harrison vuole decisamente staccarsi per poter finalmente fiorire come Artista di grande caratura, in grado di dispiegare tutto il suo potenziale.

In ultima, il magnumopuscon cui George Harrison irrompe sulla scena da protagonista è una profondissima riflessione sugli stati d’animo di colui che aveva toccato la vetta della fama mondiale e che ora che il sogno era finito (parafrasando Lennon) si interrogava sulla propria vita, trovandosi al crocevia delle esperienze passate e di quelle ancora da affrontare. Una miriade di sfumature filtrate e mediate da una spiritualità tutt’altro che alla moda, ma sinceramente vissuta e applicata nel quotidiano.

 

  Massimo Bonomo – Onda Musicale 

 

— Onda Musicale

Tags: The Beatles/George Harrison/Wall of Sound/All Things Must Pass/Pattie Boyd
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