«… Una foto ricordo durante l’intervista,» prendendo posto vicino a lui, in favore di microfono. «Ricordo?» rilanciando l’uomo, ironico. «Dipende… se è una brutta esperienza, non sarà bella da ricordare.»
Comincia così la nostra chiacchierata con Marco Castoldi, in arte Morgan,
Una poltrona d’albergo un po’ appartata, “Batida de coco” in una mano (Marco è un tipo pro-dolce, per sua stessa ammissione, e pro-ghiaccio) e occhiali scuri, che poi si sfila…
Morgan, l’amore, la musica, gli stronzi e… tutto quello che non è Morgan lo lasciamo agli altri.
A noi di Sociart Network, nell’arco di venti di minuti concentrati come anni e imprevedibili come il tempo, il talento indiscusso del musicista, cantautore e interprete – di “Spirito e Virtù” e dal “destino cattivo” – ci ha regalato attimi di genio e sregolatezza, precisazioni doverose, sfoghi di giustizia (la sua!) e racconti come quelli che si fanno ai bambini prima di dormire… E poi ancora malinconie, confessioni e fragilità di un uomo, che è persona prima di essere artista, anzi – diciamo meglio – “artigiano”.
«Scusate, adesso io devo andare,» alzandosi di scatto dalla poltrona, così senza preavviso. «Siamo a posto, allora…»
E siamo a posto sì, Morgan, e grazie! Ci incontreremo, di certo, “altrove”…
Marco Castoldi InArteMorgan. Arte come egocentrismo assoluto? O come libera condivisione di “Spirito e virtù”?
«Da quando l’arte ha a che fare con l’egocentrismo? Ogni artista innanzitutto non dev’essere lui stesso a dire di sé di essere l’”artista”, ma sono la comunità, la storia, gli altri… a riconoscerlo tale. Perché l’artista include la parola “grande”: quando uno è un artista, è un grande artista. Non può essere altrimenti! Per quello che mi riguarda,» continuando a sorseggiare il proprio cocktail, «io non ho mai detto di me: “Sono un artista!”. Ho sempre detto: “Sono un artigiano!”, che è molto diverso… Nel nome InArteMorgan c’è ironia, non avrei potuto dire: “InArtigianatoMorgan”. Ecco, vorrei mettere l’accento sul senso di costruzione meticolosa, scientifica e di intarsio musicale, usando la metafora dell’artigianato del legno e del mobile: un po’ perché sono brianzolo (e lì si fanno i mobili); un po’ perché mio padre era falegname (come Geppetto) e ha “costruito” il “personaggio”; un po’ perché c’è dietro l’idea del lavoro quotidiano e dell’impegno, della pratica giornaliera con gli arnesi, gli strumenti del mestiere, con quell’abilità meticolosa e capace di guardare il dettaglio, che – in genere – l’artista che dice di sé: “Je suis un artiste!” (io sono un artista), come vantandosi di quella parola, magari va in studio a cantare delle canzoni scritte da altri, per una settimana, e per il resto dell’anno se ne sta alle Bahama a godersi i proventi del disco.»
“Io, l’amore, la musica, gli stronzi e Dio”. È proprio questo l’ordine prioritario? O, invertendo i fattori, il risultato non cambia?
«Non c’è un ordine cronologico, non c’è un ordine. Semplicemente, suonava bene così. Poi, se volessimo dare una priorità, ultimamente sono più concentrato sulla tematica Dio… poiché la tematica stronzi – diciamola tutta – lascia il tempo che trova. Dio, dunque! Perché mi trovo sempre più spesso (sarà anche per l’avanzare dell’età) a riflettere sulla questione della fede… Equazione a ripetere, nella psicologia, significa “adattamento”… La gente, l’umanità si adatta alla superviolenza (in quel caso della crocifissione), legittimando il pensiero che, se è stato fatto quello, allora tutto è possibile; qualsiasi atto di violenza diventa lecito. E io non lo condivido! Non ho bisogno di vedere la ragazza con le gambe aperte, grondante di sangue, per capire che la violenza sessuale è sbagliata. No, non è così! Bisognerebbe rappresentare, invece, i responsabili di quella nefandezza in galera! Garantirmi questa immagine, farmeli vedere dietro le sbarre, tutti i giorni… quello sarebbe molto bello e mi farebbe comprendere che non lo devo fare!»
“Altrove” è un po’ come “applicare alla vita i puntini di sospensione… e chi si è visto, s’è visto.” Qui e adesso, quali sono i punti di contatto con la realtà?
«Il giorno che ho scritto “Altrove” è andata così: ero davvero triste, perché vedere il cambiamento della mia compagna di allora mi aveva molto impressionato… Così decido di uscire di casa, di andare via e, nel farlo, prendo la giacca che – per caso – non mettevo da un anno… “Voglio ritornare ad essere me stesso,” ho pensato, perché evidentemente avevo intrapreso una strada che non era più mia… Rimettendo la giacca dell’anno scorso, ritornavo ad essere, forse, quella persona che avevo abbandonato… E allora andai a un concerto – ecco cosa vuol dire “perdersi nel mondo! – andai a piedi, dritto fino all’aeroporto di Linate, dove c’era un certo David Byrne che suonava, quel giorno. La sensazione di “smarrimento”, la giacca, il camminare, andare andare andare, senza sapere dove, e arrivare al concerto di David Byrne… per poi sentirmi finalmente me stesso… be’, tutto quello è il mio “Altrove”. È recuperarsi.»
Querelle a parte, sei il giudice di X Factor, entrato nel Guinness dei primati per avere vinto più edizioni a livello mondiale…
«… Sei volte a X Factor! Il giudice che ha vinto più edizioni di un talent, in tutto il mondo!» precisa Morgan. «La deriva totale di X Factor è quella che, a un certo punto, è arrivata a considerarmi come una cosa che era fatta di un ciuffo di capelli… bastava che io fossi là a fare la mia presenza irascibile e malinconica… Non è così! Io sono stato chiamato per la mia competenza musicale. Ma, nel momento in cui non mi metti in condizione di lavorare alla musica, considerandomi invece soltanto un personaggio – iconico e maschera di sé stesso –, tu mi svuoti del mio senso musicale e mi butti via… Durante le prime due edizioni, quelle targate Rai, si spegnevano le telecamere del programma e si rimaneva lì, a lavorare… io con i cantanti, con gli autori… Continuava il talent, viveva!»
Ironia, creatività e azzardo… come “maschere” d’artista. Bastano quelle a fare il personaggio?
«Ci vuole anche un po’ di Bach,» senza alcuna esitazione. Dappoi Morgan sorridendo: «Questo è Bach, rivolgendomi alla tata di mia figlia. E lei: “Ah, quello che ha inventato i “fiori”…»
«Le maschere sono qualcosa che indossi sul palco,» come riprendendo il filo. «Ero in un albergo, avevo sete e ho bevuto un caffè. Ci arrivai per caso, facendo una piccola sosta. Un albergo un po’ decaduto, lontano da Dio… ma i camerieri erano particolarmente raffinati. “È raro trovare delle persone come lei da queste parti,” mi disse uno di loro. E io ho riflettuto sul fatto che non avesse usato il termine “personaggio”, quanto piuttosto “persona”, che è una delicatezza. Il termine “personaggio” ti svuota della realtà, catapultandoti subito nel mondo della finzione… Quando dici “persona”, invece, dai quella nobiltà dell’essere umano… Mi capita spesso di incontrare della gente che mi dice: “Sei un gran bel personaggio!”, allora faccio notare che, in quel momento, non sono sul palco e non sono un personaggio. E anche qualora mi avessero visto in teatro a recitare l’Amleto – pure in quel caso –, Amleto sarebbe stato il personaggio e io l’attore: quindi, persona.»
(realizzata da Gino Morabito – www.socialnetwork.com)