Il mondo del rock, nel 1972, è dominato dall’hard rock di Led Zeppelin e Deep Purple e dal movimento progressivo che va prendendosi da un po’ la scena; a cavallo di queste due realtà e del folk revival, da qualche tempo si muove una band che pare un oggetto misterioso, sono i Jethro Tull.
Il complesso – dopo una serie infinita di moniker – ha preso il nome da un agrimensore britannico vissuto secoli prima; il leader è l’istrionico Ian Anderson, che si accompagna a strumentisti di primordine. Anderson, dietro l’iconico look da barbone, ha portato nel rock la rivoluzione del flauto. Suonando tra classica e rock, tra barbugli e virtuosismi, si è imposto come personaggio imprescindibile del suo tempo. Un approccio mutuato dall’oscuro jazzista Roland Kirk.
La discografia è però altalenante. L’esordio di This Was è puro british blues su cui si innesta qualche passaggio folk e il particolare suono del flauto; a lasciare – all’indomani del buon primo disco – è il chitarrista Mick Abrahams: Anderson vuole virare verso lidi più folk e sperimentali, Mick vuole suonare semplice rock blues. Lo farà benissimo coi Bloodwyn Pig, ma il successo non gli arriderà.
Anderson assolda allora Martin Barre, ottimo chitarrista e di sicuro più versatile di Abrahams. Stand Up, all’insegna di una mistura tra rock e folk mai sentita prima, è il primo grande successo, ma il successivo Benefit non si ripete, raffreddando gli animi. L’impasto di suoni e personalità va solo messo a punto, cosa che accade con Aqualung, il disco perfetto di Anderson e soci.
Aqualung è un successo senza precedenti che impone i Jethro Tull all’attenzione di tutta la scena rock. A quel punto il potere contrattuale sale alle stelle e il bizzoso Ian può permettersi di fare ciò che vuole, con la casa discografica che gli dà carta bianca su temi e budget.
Aqualung è forse l’apice creativo della band, ma è anche un disco largamente incompreso.
Sono i tempi del prog, delle suite infinite e di pretenziosi concept album, e pubblico e critica colgono in alcuni brani un filo rosso che li lega e lo fa ritenere un vero e proprio concept. Ian Anderson si sgola a ribadire che i brani siano slegati tra loro, ma tant’è: ancora oggi, molti considerano il capolavoro dei Jethro Tull un disco concettuale.
Il barbuto Ian, allora, forte della sua ironia e del suo sarcasmo, progetta una singolare vendetta. Il disco successivo sarà una vera e propria beffa ai danni dei critici miopi e del rock progressivo. Ian, infatti, mal digerisce l’idea di complicate trame concept e di lunghe ed estenuanti suite mutuate dal mondo classico che già ha messo a soqquadro con l’uso iconoclastico del flauto.
Nasce così Thick As A Brick, una parodia dei concept album del prog, nelle intenzioni; un capolavoro – di nuovo malinteso – della storia del rock progressivo, nei fatti. L’idea è originale; Ian inventa la figura di un poeta ragazzino di otto anni, Gerald Bostock, detto Little Milton. Il giovane – che ovviamente non esiste – vince un concorso di poesia, ma viene estromesso per aver pronunciato una parolaccia durante la premiazione. I Jethro Tull si prendono allora la responsabilità di musicare i suoi testi: nasce così Thick As A Brick.
Il budget è praticamente illimitato, e Ian inventa una delle confezioni più bizzarre della storia del rock. Il disco è contenuto all’interno di un vero e proprio giornale, il St. Cleve Chronicle, di quattordici pagine e con tanto di notizie sportive e cruciverba da compilare. In copertina la scena della premiazione di Bostock e – tra le notizie – la futura collaborazione con gli stessi Jethro Tull. Una sorta di riuscitissimo mockumentary in cui viene messa in scena una parodia del prog che assume però vita propria.
Il disco diventa con gli anni un vero cult, e l’oggetto fisico in sé ambita preda dei collezionisti; è infatti quasi impossibile da reperire in buone condizioni, dato che molti possessori non hanno resistito alla tentazione di compilare i cruciverba.
Thick As A Brick, però, non è solo una grottesca presa in giro del genere; le musiche sono talmente belle e strutturate da far impallidire molti prodotti più seri e fanno ascrivere l’album pienamente al genere che si riprometteva di parodiare. Le atmosfere sono simili a quelle di Aqualung, e la band è forse per l’ultima volta così efficace nel mescolare ad arte i vari ingredienti; l’innesto del nuovo batterista porta un’inedita potenza di fuoco. Barriemore Barlow è infatti in possesso di un drumming più deciso e potente rispetto allo storico Clive Bunker, decisamente dal tocco più jazzato.
L’uomo aggiunto dei Jethro Tull, il bravo arrangiatore Richard Palmer James, si assume poi il compito di armonizzare band e orchestra. Il disco è diviso in due lunghissime suite, che superano entrambe i venti minuti. Peraltro, è solo la necessità imposta dal formato in vinile a dividere le due parti che sono, in realtà, un corpo unico di più di quaranta minuti.
Durante la lunga durata del disco si alternano vari temi principali che si rincorrono, accavallano e alternano. Rispetto a quanto fatto fino ad allora le atmosfere sono simili, ma con alcune novità. Il flauto, intanto, passa leggermente in secondo piano, col leader che si cimenta – con grandi risultati – più alla chitarra acustica, una Martin D-28 col capotasto fisso in terza posizione.
Frequenti sono i cambi di ritmo e atmosfere, con uso di tempi dispari e l’apporto dell’orchestra. Tutto in pieno stile progressivo. È prog a tutti gli effetti; che Ian e soci volessero confezionare una parodia o cimentarsi nel genere, il risultato è forse il più alto della loro carriera, almeno a livello tecnico.
So you ride yourselves over the fields – and you make all your animal deals – and your wise men don’t know how it feels to be thick as a brick.
E così vi cavalcate per i campi – e concludete i vostri affari animaleschi – e i vostri saggi non sanno come ci si sente ad essere duri come un mattone.
Con questi versi si apre la prima parte del disco, tra arpeggi di acustica, accenni di flauto e il sostegno delle tastiere che evoca a tratti quasi i Genesis. Tre minuti di questa bucolica nenia e le atmosfere si fanno improvvisamente elettriche e sostenute, puntellate dalla chitarra elettrica di Martin Barre. In particolare evidenza – e lo sarà per tutto il disco – sono le tastiere di John Evan, specie l’organo elettrico; i passaggi di quest’ultimo strumento evocano quasi Jon Lord dei Deep Purple. Anderson si distingue come sempre per la sua abilità di polistrumentista; chitarra, flauto, ma anche sassofono, violino e tromba. Quello che stupisce però è la sua performance vocale. Ian non è forse mai stato così efficace come in Thick As A Brick, un vero tour de force dove alterna toni e timbri quasi come in un musical teatrale.
Per tutta la prima parte della suite iniziale si rincorrono atmosfere diverse e sempre da brivido; l’inizio folkeggiante, l’accelerazione veloce, una cavalcata alla Aqualung con la voce di Anderson che detta legge e di nuovo passaggi delicati ed evocativi. I secondi dieci minuti si basano su un andamento ritmico quasi marziale. Le evoluzioni degli strumenti che ricordano da vicino certi passaggi dei coevi Deep Purple; questo accade specialmente negli incroci tra la chitarra di Barre e lo splendido organo di Evan.
Thick As A Brick è sicuramente un disco eccezionale, per gridare al capolavoro irripetibile manca però qualcosa. Già, perché se Anderson si fosse limitato a una suite di venti minuti e magari a una seconda facciata di calibrate canzoni, un po’ come in Aqualung, il risultato sarebbe stato probabilmente miracoloso. La seconda parte del lavoro, invece, si limita a riproporre temi molto simili a quelli del primo lato; le parti strumentali si dilatano, con tanto di assolo di batteria e con il contributo, molto buono ma a tratti un po’ avulso dal contesto, dell’orchestra.
I momenti memorabili non mancano nemmeno in questa seconda parte, intendiamoci; tuttavia l’eccessiva somiglianza con la prima causa un’inevitabile caduta di ritmo e do attenzione nell’ascoltatore. Il buon Anderson ha forse voluto strafare? Probabilmente sì. La misura e l’equilibrio, però, non sono mai state esattamente la cifra stilistica del personaggio, specie nei suoi anni più verdi.
Attraverso un’estenuante ridda di cambi di ritmo e di atmosfere, anche la seconda suite si avvia al finale; gli ultimi minuti sono di nuovo ottimi, con una gazzarra strumentale in cui si innesta gloriosamente l’orchestra.
Finalmente, tutto sfuma e il breve ritorno della chitarra acustica riporta tutto dove era iniziato, dando una sorta di circolarità a quest’opera affascinante. Negli anni la prima parte del disco, ridotta a quindici minuti e poi a dieci, sarà un vero cavallo di battaglia negli infuocati live del gruppo. Questo a ulteriore testimonianza di una certa ridondanza del lavoro originale, probabilmente ben chiara anche a Ian Anderson e ai suoi compari.
Il disco sarà comunque acclamato come capolavoro del rock progressivo, venderà benissimo e assurgerà allo status di album di culto. Il successo convince Anderson a dedicarsi sul serio al concept album prog, fino ad allora osteggiato. Il risultato sarà A Passion Play, disco che venderà tanto ma che risulta un tentativo a tratti maldestro, tenuto assieme solo da una sorta di colla progressiva, buona solo per quegli anni.
A ognuno di noi cultori dei Jethro Tull resta quindi la scelta tra l’osannato e equivocato Aqualung e la perfetta burla di Thick As A Brick. Per una volta, la risposta è semplice, basta non scegliere e prenderli tutti e due.