Spiazzanti, imprevedibili ogni volta un piccolo scarto in avanti o di lato, di album in album si rinnovano, alla ricerca di un suono nuovo, quello che sappia raccontare lo spirito del tempo.
“Nella storia dei Radiohead, ogni disco rappresenta un’impresa. Per costruire e andare avanti, abbiamo ogni volta demolito tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento.” Così Thom Yorke in una intervista rilasciata a XL poco dopo l’uscita nel 2007, prima in formato digitale scaricabile dal sito dei Radiohead a offerta libera poi in CD, di In Rainbows settimo album della band di Oxford.
Ok Computer
Solo una tappa del lungo percorso artistico iniziato nei primi anni novanta del novecento e proseguito nel 1997 con uno degli album più importanti e seminali di quegli anni che è OK computer. Un successo planetario inaspettato. Ma questo album tanto sconvolgente appartiene ancora al novecento, ne interpreta le ansie e le paure con superba terribile bellezza. Saranno i dischi pubblicati nel nuovo secolo a fare dei Radiohead l’ultima speranza del rock di sopravvivere a sé stesso.
Il cambiamento
Dal 2000 in poi, influenzati anche dalla lettura del saggio di Naomi Klein “No logo” che alimenta la loro insofferenza alle regole del mercato, con KID A e AMNESIAC, in cui spariscono del tutto le chitarre e tutto quel che rientra nel codice espressivo del rock, i loro album risponderanno ad una istanza più urgente, la ricerca della qualità dei suoni più che delle melodie. Sonorità che devono essere il medium delle inquietudini che animano le loro canzoni con i testi di Yorke spesso criptici, elusivi e in sintonia con le sonorità distopiche diffuse, per esempio, da uno strumento chiamato onde martenot. Una specie di tastiera elettronica usata dal compositore francese Olivier Messiaen nella sua Turangalila Symphonie che nella band suona Jonny Greenwood che ben conosce l’opera di Messiaen e di altri compositori del novecento.
Eppure, a dispetto delle scelte spiazzanti i Radiohead conquistano notevole prestigio presso la critica e soprattutto verso il pubblico, raramente così trasversale. I loro brani, siano ballate più o meno elettroniche, siano orditi spesso su tempi dispari e dissonanze, colpiscono allo stomaco, la bellezza delle canzoni abbaglia, non dà scampo e tuttavia consola, conforta.
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Saranno spesso inserite nelle colonne sonore di molte serie TV, e mai solo con uno scopo riempitivo, avviano sempre un approfondimento, qualcosa di intimo. Succede anche in Italia con Sandro Veronesi che fa della loro musica la colonna sonora del romanzo Caos calmo del 2005. Il segreto oltre a essere nella bontà della musica che compongono è proprio nell’essere sempre un passo più in profondità dove è più lancinante il dissidio dell’individuo con una società in cui stenta a rimanere in equilibrio. Ne sono ulteriori esempi gli album che si succedono.
Hail to the thief, del 2003, in cui recuperano almeno in parte le sonorità rock classiche in cui risalta il cantato di Thom Yorke.
È un disco che fluttua tra l’equilibrio degli arpeggi delle chitarre e una nevrotica malinconia che domina i testi, spesso aspri. Nel 2007 il già citato In Rainbows che, oltre ad essere venduto sul sito della band alla fatidica cifra di “fallo tu il prezzo”, gode di un maturo equilibrio sia nei contenuti, sia negli arrangiamenti e nella produzione. Sono molte le influenze che subiscono e che esulano dal rock come, ancora in KID A, in The national anthem. Dove è forte il rimando al free jazz di Charles Mingus di Pithecanthropus erectus.
Eppure gli accordi, le melodie, i ritmi non sono certo originali, anche se i Radiohead, indomiti e coraggiosi, sperimentano sulla propria pelle dove sia il loro limite.
Non vogliono il consenso del pubblico a tutti i costi, procedono per la loro strada che non è mai dritta, è una linea che si spezza che avanza a strappi. Se i loro fan aumentano con gli anni è solo perché sanno meglio di altri rappresentarne le ansie, le speranze e il senso di inadeguatezza nei confronti della vita. Nel 2011 e giunti all’ottavo disco ecco di nuovo i Radiohead impegnati in uno dei loro inesauribili volteggi. Ancora una volta spiazzano tutti con un album che non è pop, non è elettronica, né rock, ma che attraversa ognuno dei generi citati. The king of limbs è tutto questo e anche di più, è forse uno dei lavori più oscuri della band inglese. Il più breve, solo trentasette minuti, il più aspro e introspettivo. Nel 2016, cinque anni più tardi, tornano con il nono album A moon shaped pool.
Un disco che pur non disdegnando l’elettronica esalta l’elemento umano e intimo della band e ancor di più di Thom Yorke i cui testi sono molto autobiografici.
Un disco più ispirato del precedente che vive di una pacata rassegnazione, di un gusto per gli arrangiamenti quasi cinematografici, dovuti alla mano esperta di Jonny Greenwood e che restituisce una band in grande forma. Che importa se i loro dischi, per quanto di successo, non abbiano venduto quanto i maggiori trionfi del britpop. L’influenza dei Radiohead è pervasiva, incrocia tutte le forme d’arte e sulla musica è stata ed è grandissima.
Svincolata la loro opera da ogni slancio commerciale hanno accolto la sfida, rimettersi in gioco e spostare un poco più là la soglia della ricerca non solo musicale, profonda e capace di provocare pensieri ed emozioni. Se si tratta di vero genio lo sapranno i futuri ascoltatori delle loro dolorose, belle e abbaglianti canzoni.
a cura di Massimo Turtulici (già pubblicato sulla Rivista letteraria Passaporto Nansen)