In un recente corso di formazione aziendale su leadership e soft skills ho appreso che dopo resilienza molto probabilmente la nuova parola d’ordine con cui le aziende ci obbligheranno ad accettare condizioni di lavoro sempre più stressanti sarà antifragilità.
La differenza è che mentre la resilienza consiste “semplicemente” nella capacità di rialzarsi dopo una caduta, l’antifragilità fa un passo ancora più in là per cui non è più sufficiente rialzarsi, ma nel farlo bisogna anche migliorarsi: in pratica significa che bisogna reagire a un trauma diventando ancora più forti di prima, come un’idra alla quale dopo aver tagliato la testa gliene spuntano subito altre due.
A questo punto, se siete arrivati a leggere fin qui, immagino che vi starete chiedendo cosa c’entri tutto questo con Joni Mitchell e con il suo album più famoso citato nel titolo dell’articolo. Ecco, diciamo che Joni Mitchell aveva già dimostrato negli anni ‘70 quanto fosse fallace questo concetto dell’antifragilità come garanzia di successo, con un album che più fragile di così non si può e di cui oggi siamo qui a celebrare il 50° anniversario.
Usciva infatti il 22 giugno 1971 quello che può essere considerato il capostipite di tutto il folk introspettivo a venire; un album dal titolo programmatico – “Blue” – che nella lingua inglese non indica soltanto il colore dei lapislazzuli, ma anche un sentimento che non ha il suo esatto corrispettivo italiano e che potremmo sintetizzare come un misto di tristezza e nostalgia. L’origine di questa particolare associazione tra colore e sentimento si perde nella notte dei tempi – secondo alcuni deriva da un vecchio modo di dire inglese “To have the blue devils/avere i demoni blu”, cioè essere tristi – ma in ogni caso rimane un dato di fatto: dal blu(es) di B.B. King e dei suoi antenati al periodo blu di Picasso, nella cultura occidentale il colore blu è associato alla tristezza. E così avviene anche per la musica di Joni Mitchell, specialmente quella contenuta nel suo album più Blu(e) dipinto di blu,come dimostra anche la stessa immagine di copertina che la ritrae con il viso assorto nella musica e saturato nel colore della tristezza.
Un colore e una copertina che in qualche modo rimandano a moltissimi altri dischi di “musica triste”: basti pensare a Otis Blue di Otis Redding o a Broken English di Marianne Faithfull, senza dimenticare la maschera blu di Lou Reed o il famoso impermeabile blu di Leonard Cohen, la rapsodia in blu di George Gershwin, la strada verso il blu di Nick Drake, il treno blu di John Coltrane e persino quel particolare tipo di blu creato ad hoc da Miles Davis. La lista delle “canzoni blu” in realtà potrebbe allungarsi all’infinito – se vi interessa ne ho raccolte circa 200 in una comoda playlist spotify – ma ad aprirla nel nostro immaginario ci sarà sempre Joni Mitchell – a chiuderla invece non può che esserci Bob Dylan con It’s All Over Now Baby Blue.
Tornando alla cantautrice canadese ciò che più colpisce del disco (blu) di Joni è l’estrema fragilità che emerge nitidamente dai testi, dal suo canto simil soprano (in realtà Joni è un contralto) e dall’uso del dulcimer appalacchiano, capace di generare una sorta di crepitio seducente e tremolante come una confessione incoffessabile.
Per quanto concerne il suono, l’elemento di maggiore novità, però, è rappresentato dalle sue famose accordature aperte. Quel suo modo peculiare di accordare la chitarra, (intrapreso inizialmente per far fronte a una mano bloccata dalla poliomelite) divenne, infatti, sempre più sperimentale prendendo ispirazione più dalla pittura che dalla teoria musicale. Spesso Joni si è autodefinita come “una pittrice sviata dalle circostanze”: forse sarà per questo che nella ricerca dei suoi accordi si comporta esattamente come una pitttrice che mescola i colori per crearne di nuovi e trovare le sfumature giuste delle sue emozioni. Lo dice chiaramente anche nel testo di Blue:
Sono una pittrice solitaria che vive in una scatola di colori
Per il musicista jazz Wayne Shorter si tratta di una serie di accordi non comuni che contengono una domanda dentro l’altra senza giungere quasi mai a una risoluzione. Per questo ascoltandoli si ha la sensazione di rimanere eternamente in sospeso. Come ha precisato lei stessa, si parla spesso degli “accordi rari” di Joni Mitchell, ma un accordo è la traduzione di un sentimento, dunque come può un accordo essere raro? Per Joni quegli accordi sono giusti perché sono “il dipinto sonoro” delle sue emozioni.
Tra queste la fragilità è quella più vivida perché rispecchia con sincerità sconcertante il momento di particolare sconforto attraversato dall’autrice nel periodo di composizione dell’album. Nessuno in quegli anni era abituato a un tale grado di trasparenza nelle canzoni “pop”, che vanno qui a costruire una sorta di radiografia del proprio mondo interiore, talmente dettagliata e profonda da lasciare completamente disarmati e indifesi gli ascoltatori.
Come ha spiegato la stessa Joni:
Non c’è una sola nota disonesta in tutto l’album. In quel periodo, non avevo difese. Mi sentivo trasparente come il cellophane intorno a un pacchetto di sigarette. Sentivo di non aver niente da nascondere al mondo e di non poter fingere di essere forte o di essere felice nella mia vita. Il vantaggio di tutto questo nella musica era che non c’erano difese nemmeno lì.
La scrittura era così intima e personale che l’amico Kris Kristofferson dopo aver sentito l’album le disse: «Mio Dio, Joan, risparmia qualcosa per te stessa!». Ma Joni non aveva intenzione di risparmiare nulla, anzi voleva mostrare proprio tutto o forse – più semplicemente – non era in grado di fare altrimenti:
Ero come un sacchetto di plastica con dentro tutti i miei organi esposti in bella vista, seduta a piangere sulla sedia di un auditorium – Era così che mi sentivo, come se avessi le budella di fuori. Ho scritto Blue in quelle condizioni.” – Joni Mitchell
Stando a quanto dichiarato da Joni in un’altra intervista, questo suo modo di scrivere testi così intimi e personali fu ispirato da Bob Dylan e dalla sua capacità di scrivere brani su qualsiasi cosa con un approccio narrativo in prima persona. Ma in realtà non è giusto porre l’accento solo sull’aspetto privato dei brani di Joni, perché la magia di quest’album sta proprio nell’essere riuscito a contenere tutto l’universale nel suo piccolo mondo personale. E a 50 anni di distanza è ancora questo il segreto del suo successo. Il vetro trasparente con cui ci ha permesso di guardarle dentro è diventato uno specchio per guardare dentro noi stessi. Come scrisse Timothy Crouse nella recensione originale uscita su Rolling Stone: «Nel ritrarsi senza filtri, Joni Mitchell rischia il ridicolo e invece raggiunge il sublime».
L’ANALISI DEL DISCO
All’interno del disco possiamo individuare due nuclei tematici principali in contrasto tra loro. Uno è quello del viaggio inteso come desiderio di libertà e come ricerca di qualcosa che non si sa. L’altro, invece, è quello dell’amore – passato, presente e (possibilmente) futuro – tendente verso una sorta di stabilità di coppia quasi sempre irrealizzabile.
VIAGGI (DIS)ORGANIZZATI
Il tema del viaggio è sempre stato presente nelle canzoni e nella vita di Joni, probabilmente perché – come ha spiegato lei stessa nel documentario A Woman of Heart and Mind – quand’era piccola suo padre aveva acquistato una casa con una finestra che dava sulla strada principale e Joni era cresciuta passando ore e ore davanti a quella finestra, domandandosi dove andassero tutte quelle auto che vedeva passare.
Non a caso la canzone che inaugura il disco – All I Want – si apre con una dichiarazione d’intenti inequivocabile: I am on a lonely road and I am traveling , traveling, traveling, traveling ,ripetuto quattro volte come un mantra.
Il brano è altresì una canzone d’amore dedicata a James Taylor con il quale Joni aveva intrapreso una relazione burrascosa, in corso proprio durante le registrazioni dell’album, mentre lo stesso James stava lavorando al suo Mud Slide Slim and the Blue Horizon: un altro disco chiave del ‘71, sempre con quel colore nel titolo a dipingere un orizzonte di canzoni fatte a loro volta di viaggi, addii, ritorni e nostalgie di casa, con titoli eloquenti come Riding on a Railroad, Highway Song o Isn’t It Nice To Be Home Again – canzone posta a sigillo dell’album, in cui si rispecchia la stessa saudade cantata da Joni nel suo brano intitolato California.
Quest’ultima costituisce una sorta di diario di bordo del viaggio compiuto da Joni in Europa tra Grecia, Francia e Spagna nel 1970.
Nonostante la meraviglia dei posti visitati e il desiderio di scoperta (Quanti posti ancora da vedere), la giovane cantautrice non riesce a mettere da parte la solitudine (Oh ti senti così sola a camminare per strade dove incontri solo stranieri) e dopo un po’ il suo cuore brama di nuovo quella terra:
Ma il mio cuore gridava per te
– California, Sto tornando a casa…
Nello specifico, il suo cuore era legato a Laurel Canyon, un luogo incantato che in quegli anni era diventato praticamente la mecca della nuova scena musicale americana, nonché quello in cui Joni aveva stabilito il suo nido d’amore insieme a Graham Nash, che tradurrà tutto questo in musica nella splendida Our House (pubblicata poi sull’esordio del supergruppo Crosby, Stills, Nash and Young nel 1970). Nel frattempo, Joni un giorno dipingeva quadri (la sua prima vera passione mai sopita) e l’altro incideva capolavori della musica come Both Sides Now e Big Yellow Taxi, confluiti nei suoi due album precedenti Clouds (1969) e Ladies Of The Canyon (1970).
Nella title track dell’album successivo, la parola Blue si riferisce sicuramente al sentimento di nostalgia e tristezza in cui la protagonista si sente imprigionata dopo aver lasciato Laurel Canyon, ma anche al nome di un suo possibile amante. In entrambi i casi a Joni bastano poche parole e qualche leggerissima nota di pianoforte per inchiodarci e lasciarci “invischiati nel blu” come il Bob Dylan di Tangled Up In Blue. In questo caso il netto contrato tra la voglia di stabilità (amorosa) e il desiderio di libertà è ben esemplificato dal verso di apertura del brano.
Blue, le canzoni sono come tatuaggi
Sai che sono già stata per mare
Ancoràmi, o lasciami veleggiare via
Lo stesso contrasto emerge anche in This Flight Tonight dove la protagonista si pente di essere fuggita dal suo amato: “Oh, stella lucente, riporta indietro questo folle uccello, non dovevo salire su questo volo, stanotte”. Una fuga che invece viene anelata in uno dei vertici assoluti dell’album – River – dove Joni desidera soltanto un fiume ghiacciato su cui pattinare via:
I wish I had a river I could skate away on,
oh I wish I had a river so long,
I will teach my feet to fly
L’immagine di questa fuga poetica e surreale potrebbe essere letta come una fuga dalle proprie responsabilità perché la canzone contiene anche un riferimento alla figlia che ebbe da giovane e diede in adozione, essendo sola e senza mezzi per il sostentamento (I made my baby cry […] Now I’ve gone and lost the best baby that I ever had).
Il tema della figlia viene ripreso in maniera più “esplicita” in Little Green che è anche l’unico brano a non rientrare nei due filoni principali del disco. Non a caso si intitola con un colore diverso da quello dell’album, usato qui come nome inventato della piccola:
Nata con la luna in cancro
scegli per lei un nome che le calzi a pennello
Chiamala Verde e gli inverni non la faranno sfiorire.
AMORI SPEZZATI
Il secondo filone dell’album è costituito da una sorta di cronistoria musicale di tutti i suoi amori spezzati: qui il viaggio, però, comincia dalla fine e finisce con l’inizio.
Il primo brano del disco (All I Want), infatti, come abbiamo già detto, è dedicato all’ultima relazione avuta all’epoca da Joni con il musicista James Taylor, mentre il brano conclusivo, ovvero The Last Time I Saw Richard, si riferisce – con un altro nome – al suo primo marito Chuck Mitchell, di cui le è rimasto appiccicato addosso soltanto il cognome. Nel mezzo ci sono tutti gli altri: che siano musicisti famosi come Graham Nash e Leonard Cohen o perfetti sconosciuti come Cary Raditz, il risultato non cambia, l’impatto emotivo di queste canzoni sarebbe in grado di sciogliere un cuore imprigionato nel ghiaccio.
Ma andiamo con ordine
In All I Want il tema amoroso si srotola attraverso una lunga lista di desideri premurosi nei confronti di James Taylor che si concludono con un’unica richiesta in cambio: Do you want – do you want – do you want to dance with me baby? Do you want to take a chance? Con quel “Do You Want” che si ripete quattro volte per mantenere in equilibrio il contrasto con il tema del viaggio del verso di apertura. Link: https://www.youtube.com/watch?v=2AavxMdFiZo
La risposta di James Taylor non si farà attendere e arriverà con il suo brano You Can Close Your Eyes inciso nella sala accanto.
Oh, I don’t know no love songs
I can’t sing the blues anymore
Sure but I can sing this song
Yes and you can sing this song when I’m gone
Un addio doloroso come lo sono tutti gli addii amorosi, compresi quelli di cui Joni canta nelle altre canzoni del disco. Perché come ha detto la stessa Joni, Blue è “un’anatomia del crimine amoroso”.
All’interno di questo gioco delittuoso un’altra grande canzone d’addio è quella che porta il nome di Carey (Cary Roditz), il vecchio “diavolo rosso” scorbutico con cui Joni aveva avuto un’avventura sull’isola di Creta durante il suo viaggio in Europa e al quale vorrà lasciare una lettera di congedo sotto forma di canzone di compleanno per festeggiare un’ultima sera e spiegargli che
è difficile andarsene da qui, te l’assicuro / Ma questa proprio non è casa mia.
Ritorna così anche il tema del viaggio come fuga e (al tempo stesso) ritorno a casa. Non a caso Cary viene “citato” anche in California:
Ho incontrato un bifolco su un’isola greca […] avrei anche potuto restare lì con lui, ma il mio cuore bramava te, California”.
Se quella su Carey non è certo una delle canzoni più dolorose del lotto (il peggio deve ancora venire), quella dedicata all’ex compagno e musicista Graham Nash – My Old Man – è forse la più luminosa di tutte: il suo è un blunotte che si schiarisce grazie a un fuoco d’artificio, un’apertura del cielo che lascia spazio a una musica dolcissima, perché lui “è l’accordo più caldo che abbia mai sentito – che tiene lontane le mie malinconie”.
Eppure anche lui farà una brutta fine e verrà lasciato da Joni con un telegramma da Formentera: “Se tieni la sabbia troppo stretta nella mano, ti scivolerà via fra le dita. Love, Joan”. Poche parole, ma chiare, alle quali Nash non potrà far altro che arrendersi e rispondere nella stessa lingua condivisa, quella delle canzoni contenute nel suo primo album solista Songs For Beginners e in particolare in una (Simple Man) che dice:
sono un uomo semplice e perciò canto una canzone semplice, non sono mai stato così tanto innamorato e non ho mai sofferto così tanto allo stesso tempo”.
A questo punto anche noi non possiamo far altro che arrenderci e lasciare spazio all’apice del disco, A Case Of You, secondo alcuni dedicata a Leonard Cohen e al loro fugace lampo d’amore – già tratteggiato in precedenza nella splendida Rainy Night House – forse ora qui ripreso per via di quel “profilo disegnato due volte sulla cartina del Canada” e per quel riferimento al sangue che porta dritto dritto al vertice poetico di questa preghiera folk, confinante col paradiso e l’inferno.
Ma tu sei nel mio sangue come il vino consacrato
Hai un sapore così amaro e così dolce
Potrei bere una cassa di te, tesoro
E riuscirei ancora a stare in piedi.
In effetti, anche il brillante scambio di battute iniziale, a metà tra il cinico e il romantico, potrebbe far pensare a un possibile dialogo con L. Cohen:
Un attimo prima che il nostro amore svanisse mi hai detto
“sono costante come la stella polare”
E io ti ho risposto “costantemente nel buio”, ma dove?
Se mi cerchi sono nel bar…»
E così arriviamo al luogo definitivo d’incontro di tutti gli amanti perduti (citofonare al Tom Waits di Blue Valentines per chiarimenti) – il bar – che è anche quello in cui si conclude l’ultimo brano del disco:
L’ultima volta che ho visto Richard era a Detroit nel ’68 / E mi ha detto che tutti i romantici incontrano lo stesso destino un giorno / Cinici e ubriachi ad annoiare qualcuno in qualche cafè buio.
Ecco, anche Joni ora si trova lì perché Tutti i buoni sognatori passano da queste parti, prima o poi, nascondendosi dietro la bottiglia, in cafè bui.
Ma poi vola via di nuovo, per lei il passaggio da quel tavolo del bar è solo una fase,
Solo un bozzolo scuro prima di avere le mie splendide ali e volare via.
A 50 anni di distanza Blue è ancora un cerchio che non si chiude, un tubetto di tempera aperto e rovesciato sul foglio della nostra vita disegnata male, invischiato dentro sé stesso ed eternamente sospeso nel suo colore, proprio come restano eternamente sospesi i suoi accordi e le sue canzoni: cerchi magici nell’acqua che si infrangono eppure continuano a tornare a galla.
Blu, a te una conchiglia / Dentro ci sentirai un sospiro / Un’eco di ninnananna / La mia canzone per te.