In primo pianoMusica

Il 23 luglio del 2011 moriva Amy Winehouse

Amy Winehouse

E a 10 anni di distanza le lacrime per la sua scomparsa non si sono ancora asciugate.

Per rendere omaggio ad Amy ripercorriamo oggi la sua storia musicale partendo dall’esterno, cioè dalla sua immagine vista migliaia di volte in forma reale e distorta, immortalata negli scatti d’autore e nelle foto dei paparazzi schiaffate su tutti i giornali, catturata dalle telecamere amatoriali e da quelle professionali o addirittura scolpita in una statua a Camden Place. Un’immagine talmente potente che qualcuno – in primis il padre – vorrebbe continuare a sfruttare attraverso un ologramma da portare in concerto, ma al tempo stesso un’immagine che la maggior parte della gente non è stata in grado di decifrare, nonostante la sua sovraesposizione mediatica (o forse proprio per quella).

Prima di provare a farlo, nelle poche righe che seguiranno, mettiamo subito in chiaro una cosa: Amy Winehouse è stata la più grande cantante degli anni zero.  

Anzi, cantante e cantautrice, perché se è vero (come è vero) che aveva una voce fenomenale in cui potevi sentire l’eredità di tutte le Jazz singer che l’avevano preceduta – da Billie Holiday a Sarah Vaughan e Dinah Washington – non bisogna dimenticare che Amy era anche un’incredibile songwriter: le sue canzoni erano al 99% frutto della sua penna e se hanno raggiunto milioni di persone è stato anche per la capacità di immedesimazione ed empatia che quei testi – scritti spesso di getto – sono stati in grado di instillare nei cuori e nelle menti delle persone comuni.

Certo, i produttori e i musicisti che l’hanno accompagnata, da Salaam Remi a Mark Ronson, passando per i Dap-Kings di Sharon Jones (pace anche all’anima sua), sono stati bravi a montare il tutto su ritmi e melodie che mescolavano il Jazz degli esordi di Frank (2004)con il Soul, l’R&B e il Wall of Sound spectoriano dei Girl Group anni ’60 – dando così vita al capolavoro assoluto di Back To Black (2006) –  ma il diamante grezzo era già tutto lì, in quella ragazza che suonava la chitarra sul divano e scriveva i testi su un taccuino sempre a disposizione nella borsa.

A proposito del songwriting di Amy Winehouse, Mark Ronson – in cabina di regia per le registrazioni newyorkesi di Back To Black – dirà di aver fatto una fatica bestiale per convincerla a cambiare anche soltanto una singola parola di un verso della title track, quello che in origine diceva “We only say goodbye with words / I Died a Thousand Deaths” (Ci siamo detti addio soltanto a parole, ho vissuto centinaia di morti) e successivamente è stato trasformato in “I Died a Thousand Times(sono morta un centinaio di volte).

Per Ronson era semplicemente una questione di assonanza/musicalità, mentre per Amy era – diciamo – non proprio una questione di vita o di morte, ma quasi, nel senso che per lei la cosa più importante era la sincerità del brano e se quel verso le era uscito spontaneamente in quel modo non capiva assolutamente perché avrebbe dovuto cambiarlo, compromettendone la sincerità. Amy era così: testarda, spontanea e sincera. E la sua musica era come lei. Probabilmente è anche per questo che ha superato la prova del tempo.

Oggi sono passati esattamente dieci anni dalla sua morte, ma la forza di quelle canzoni è ancora così dirompente da aprire una diga di emozioni e lacrime al solo pensiero della sua voce, come se Amy fosse ancora qui a cantarle. Provate ad ascoltare il recente e monumentale triplo album dal vivo Amy Winehouse At The BBC e ne avrete la prova concreta che vi lascerà non solo a bocca, ma anche a cuore e occhi aperti. Non c’è bisogno di alcun ologramma da portare in giro, possiamo vedere Amy materializzarsi davanti ai nostri occhi con la sola forza della sua musica. E questa è la cosa più reale che possiamo avere. Non potremo più vederla dal vivo in carne ed ossa. Il suo corpo non salirà più su un palco. Quel corpo così minuto, che col tempo si era assottigliato sempre di più, non potrà più stare lì a testimoniare innanzitutto sé stesso e la sua vita come una sorta di autobiografia antropomorfa. Perché in un certo senso questo era diventato.

Infatti, se il Sonny Boy cantato da Lucio Dalla aveva disegnato sulle braccia la mappa delle stelle, la “nostra” Amy – ognuno ha la sua – su quelle sue braccia lunghe e magre vi aveva inciso tutte le sue sofferenze e i suoi amori: da vicino si potevano vedere nitidamente le cicatrici dei tagli che si era inferta da sola quando soffriva di depressione e che aveva poi ricoperto di tatuaggi, così come aveva fatto con il resto del corpo. Osservandola bene attraverso la mappa completa di questi tatuaggi si potevano ricavare i punti cardinali della sua biografia.

Sul braccio sinistro, ad esempio, ce n’era uno raffigurante un ferro di cavallo con la scritta “Daddy’s Girl” (cocca di papà), dedicato al padre fedifrago che l’aveva abbandonata a nove anni, per poi rifarsi vivo e diventare una presenza ingombrante solo dopo che la figlia era stata baciata dal successo – tutti i possibili paralleli con il padre di Britney Spears e quello di Whitney Houston sono voluti e dovuti. Come si intuisce dal tono amorevole di quel tatuaggio, Amy non lo condanna per il tradimento della madre, ma anzi si interroga sul perché sia successo, arrivando a scriverci su una delle canzoni più sentite di Frank –What It Is About Menin cui confessa l’intima paura di aver in qualche modo incamerato i comportamenti del padre, diventando a sua volta una potenziale traditrice:

E prenderò l’uomo sbagliato con la stessa naturalezza con cui canto
E salverò le mie lacrime per scoprire le mie paure
I nostri modelli comportamentali che si attaccano nel corso degli anni

Proprio il padre giocherà un ruolo fondamentale nel convincerla a non andare in riabilitazione quando si presenterà la prima occasione, che più che un’occasione era una necessità. Ma come canta la stessa Amy nei versi iniziali di Rehab – il brano che da lì a poco la rende una star internazionale:

They tried to make me go to rehab but I said ‘no, no, no’

(Hanno provato a farmi entrare in riabilitazione ma ho detto no, no, no)

I ain’t got the time and if my daddy thinks I’m fine / He’s tried to make me go to rehab but I won’t go, go, go (non ho tempo, e se mio padre pensa che stia bene… /

ha provato a farmi entrare in riabilitazione, ma non andrò, non andrò, non andrò.)

Tornando ai tatuaggi, sul braccio destro di Amy, invece, campeggiava una pin up con accanto il nome della nonnna Cynthia, a sua volta cantante, fidanzata con il musicista Jazz Ronnie Scott e sua principale fonte di ispirazione e motivazione; sarà lei a convincerla a iscriversi alla scuola di teatro e sarà sempre lei a darle il soprannome di Lioness (leonessa), regalandole un ciondolo da portare al collo per non dimenticarlo. Amy non lo dimenticherà affatto e chiamerà così anche la sua etichetta discografica fondata nel 2009. La morte della nonna nel 2006 sarà un duro colpo. Per questo anche l’album postumo uscito nel 2011 è stato intitolato Lioness: Hidden Treasures.

L’album non è certo indispensabile, ma contiene comunque qualche inedito interessante che lascia purtroppo soltanto intuire quale sarebbe potuto essere il nuovo (per)corso musicale di Amy (cfr. Half Time e Between The Cheats).  A riempire il resto del disco ci sono alcuni vecchi classici nella loro versione originale (Tears Dry e Wake Up Alone)  e diverse cover che stanno più che altro lì a ricordare quali sono state le influenze musicali più importanti per Amy: da Carole King – sui cui accordi aveva imparato a suonare la chitarra con l’amico d’infanzia Tyler James –  al duetto di Body and Soul  col suo idolo Tony Bennett – immortalato anche nello splendido documentario di Asif Kapadia – fino aThe Girl From Ipanema, la prima canzone che aveva eseguito davanti a Salaam Remi quando ancora 18enne era stata spedita nel suo studio di Miami per incidere il primo album. Remi ricorda di aver capito subito che quella ragazza aveva già la maturità di una cantante jazz navigata.

Ma il tatuaggio più importante di tutti è quello che Amy Winehouse si porta appena sopra il cuore, dedicato ovviamente a quell’amore maledetto che fu croce e delizia della sua vita: Blake Fielder-Civil. Come ha dichiarato più volte, quasi tutte le canzoni del suo secondo album sono state ispirate da Blake, il ragazzo (poi anche futuro marito) con cui aveva avuto una storia tormentatissima: conosciutisi una sera in un bar, i due avevano legato fin da subito e poi erano precipitati insieme in un vortice di dipendenze, purtroppo non solo affettive. Dopo poco tempo lui, però, era tornato dalla sua ex, lasciando Amy da sola in un buco nero di alcool e disperazione, ispirando altresì i famosi versi di Back To Black::

You go back to her and I go back to Black

Tu torni da lei e io torno al lutto.

La “vendetta” di Amy si compirà andando a letto con il migliore amico di Blake e tramutando, così, in realtà il presagio di cui aveva parlato in What It Is About Men.

Il “fattaccio”, annaffiato sempre con alcool e droga – di cui ormai la cantante era diventata dipendente – sarà la base narrativa di un altro capolavoro in musica, You Know I’m No Good:

I cheated myself / Like I knew I would

I told you I was trouble / You know that I’m no good

Ho tradito me stessa / Come sapevo che avrei fatto

Te l’avevo detto che ero incasinata / lo sai che non sono buona

Da notare che dicendo “ho tradito me stessa” e non “ti ho tradito”, Amy cerca di allontanare il senso di colpa del suo tradimento, ribadendo poi il concetto nel verso finale dell’ultima strofa con Who truly stuck the knife in first? chi è che ha davvero inferto la coltellata per primo?  

Da tutto questo sturmunddrang emotivo fatto di nottate passate a bere e a crogiolarsi nel proprio dolore, sdraiata sul pavimento della cucina, deriva anche l’amara constatazione di un altro capolavoro assoluto del disco, la ballata senza speranza Love is a Losing Game: L’amore è una partita a perdere.

Ma quando parliamo dell’immagine di Amy non è solo una questione di tatuaggi

Anche il suo look, infatti, era fortemente comunicativo e indicativo di un’altra sua paura: la fama. Amy non aveva grandi ambizioni, lo racconta bene nel catalogo di desideri cantato in When My Eyes, un brano inedito rimasto fuori dalla tracklist ufficiale del primo album. Il suo sogno era scrivere e cantare le sue canzoni nei piccoli jazz club davanti a un pubblico ristretto di poche persone. O al limite quello di fare la cameriera sui pattini. Non era fatta per le grandi arene, i Grammy o i rotocalchi. Amy, infatti, non aveva alcuna intenzione di diventare così famosa. Ne parla esplicitamente anche in un altro suo brano inedito, intitolato Long Day, dove ritrae una figura che non riesce gestire la notorietà:

Una volta avevo tanta anima, ora ho dimenticato chi sono.

Per questo quando ha fatto il grande salto la WINEHOUSE ha deciso di indossare una specie di armatura che proteggesse la vera AMY sotto un trucco nero allungato sugli occhi, alla Cleopatra in versione Pin Up, con tacchi vertiginosi al posto delle ballerine, gonne più corte, reggiseni sporgenti, tatuaggi ben in vista e naturalmente – il tratto caratteristico che tutti ricordano – una nuova pettinatura con i capelli tirati su, la cosiddetta “cofana”, chiamata molto più elegantemente in inglese “beehive”. Quello era il suo pezzo forte, l’elmo della sua nuova armatura: “Più mi sento insicura, più i miei capelli crescono in altezza” aveva dichiarato.

Nascosta da qualche parte sotto quell’armatura però c’era ancora la vecchia Amy con i capelli sciolti. Solo che piano piano si stava assottigliando e nel giro di pochi anni la maschera avrebbe finito per inghiottirla completamente. Il corpo ancora una volta parlava chiaro. Bisognava soltanto saperlo leggere. Se si confrontano i video e le fotografie scattate ai tempi di Frank con le immagini successive al successo di Back To Black è impossibile non notare la differenza, non solo nel look, ma anche nelle forme del corpo vero e proprio, vistosamente dimagrito. Il fotografo Charles Moriarty, che aveva lavorato con lei agli inizi, ha dichiarato di aver capito subito che c’era qualcosa che non andava quando aveva la foto di copertina di Back To Black. La Amy che aveva conosciuto stava letteralmente scomparendo.

Possibile che non se ne sia accorto nessuno? Eppure quel disco ha venduto 16 milioni di copie e le foto di Amy erano su tutti i giornali. Ma col passare del tempo quasi tutti sembravano essere più interessati agli scandali e alle foto shock relative agli abusi di sostanze.

Oggi tutti sappiamo che non è stata la droga a ucciderla

Ormai da quella ai tempi si era ripulita. Ma il suo fisico era stato demolito da anni di bulimia che combinati con un’intossicazione alcolica le hanno tolto la vita a soli 27 anni. I disturbi alimentari erano un problema con cui conviveva da tempo. La madre ricorda che una volta da adolescente Amy le aveva detto: “sai, ho un’ottima dieta, mangio tutto quello che voglio e poi lo vomito”, ma lei non le aveva dato molta importanza, pensando fosse soltanto una fase. La bulimia era il vero segreto oscuro di Amy. Non c’è traccia di questo nelle sue canzoni o nelle sue interviste. Amy aveva fatto della sua vulnerabilità affettiva quasi una bandiera, aveva parlato di tutte le sue debolezze e di tutte le sue dipendenze, ma di questo disturbo non aveva mai fatto menzione. Forse avrebbe avuto bisogno soltanto di un po’ più di coraggio e di aiuto (ma come dice in un’altra sua vecchia canzone di Frank Help YourselfNon posso(no) aiutarti se non ti aiuti da solo).

Per questo chiudiamo questa riflessione-omaggio con la canzone che meglio di tutte raccoglie in un solo verso vulnerabilità e coraggio, ovvero Tears Dry On Their OwnLe lacrime si asciugano da sole – sotto la quale, per chi non se ne fosse accorto, scorre la base di Ain’t No Mountain High Enough di Marvin Gaye e Tammi Tarrel, altra coppia destinata a esplodere nel pianto come monito per chi si avvicina troppo alla musica dell’anima o all’anima della musica.

Amy, ormai non è più con noi da dieci anni, ma le (sue) lacrime non si sono ancora asciugate, del resto ci aveva detto che si sarebbero asciugate da sole, ma non ci aveva detto dopo quanto tempo.

Cammina via, il sole tramonta
Si prende il giorno, ma io sono cresciuta
E sulla tua strada la mia sfumatura triste/la mia ombra profonda
Le mie lacrime si asciugano da sole

— Onda Musicale

Sponsorizzato
Leggi anche
Termoli Jazz Festival 2021: ecco il programma
Flaza, “Piccola peste” è il singolo d’esordio del nuovo talento urban di casa Honiro