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All Things Must Pass – Il capolavoro senza età del Beatle tranquillo

In occasione della celebrazione – posticipata – del cinquantennale di “All Things Must Pass”, considerato il disco capolavoro di George Harrison, ho avuto il piacere di intervistare Michelangelo Iossa, tra i più autorevoli studiosi dei Beatles e di George Harrison d’Italia, nonché autore del libro “Le canzoni di George Harrison. Commento e traduzione dei testi” (Editori Riuniti, 2006).

Perché l’entourage di George Harrison ha deciso di celebrare il cinquantesimo anniversario del disco il 6 agosto del 2021?

“La scelta di celebrare il 50esimo anniversario dell’album nell’agosto del 2021, si può ricondurre all’anniversario del primo concerto benefico della storia del rock: “CONCERT FOR BANGLADESH”, tenutosi al Madison Square Garden di New York il 1° agosto del 1971. Inoltre, causa pandemia da Covid-19, hanno preferito far slittare il 50esimo anniversario del disco, celebrando – nel 2021 – non solo la “mamma” di tutti i Live Aid successivi, ma anche il primo live in cui Harrison ha proposto le canzoni di All Things Must Pass.

Il 10 aprile 1970 i Beatles annunciano il loro scioglimento. Il 27 novembre dello stesso anno esce “All Things Must Pass“. In che contesto George Harrison pubblica il suo capolavoro?

“All Things Must Pass” ha due contesti ben definiti che definiscono la sua peculiarità. Il primo, è che George Harrison ha sempre avuto nel cassetto decine e decine di canzoni, ma era limitato dallo “strapotere John Lennon & Paul McCartney” (anche se moltissime canzoni di Harrison erano provate dai Beatles in studio, ad esempio proprio “All things must pass” – Anthology 3 Version). Nell’ultimo anno e mezzo di vita (1969-70), infatti, i Beatles provarono un sacco di pezzi, finiti, poi, nelle carriere soliste dei “Fab Four” (“All things must pass” – George Harrison; “Teddy boy” – Paul McCartney; “Child of nature”, che diventerà “Jealous guy” – John Lennon). Il secondo, invece, è relativo alla costante crescita artistica che George Harrison ha avuto nei Beatles. All’inizio, Harrison non era particolarmente interessato a scrivere le canzoni; lo fa per imitare John e Paul, che si dimostravano non solo molto affiatati e complementari, ma anche molto capaci a scrivere brani che poi diventeranno leggende. Lui vede come lavorano e per imitazione scrive “Don’t bother me”, fino a quando non arriva a mettere a segno una serie di colpi da maestro: “I need you” in “HELP!” (1965), “Taxman” in “Revolver” (1966), ad esempio. Da “Revolver” in poi, lui diventa l’Harrison che conosciamo. Piccola curiosità: proprio in queste ore “Revolver” compie i suoi 55 anni di età.

Fu con la pubblicazione di “Revolver” che George Harrison assunse il ruolo di terzo compositore effettivo del quartetto sfoderando tre brani di altissimo spessore: “Taxman”, “Love you to”, “I want to tell you”. I Beatles riconobbero tale ruolo a George Harrison affidando alla sua “Taxman” l’apertura dell’album che annunciò una seconda vita artistica della band, manifestata da un torbido e confuso “counting” iniziale (“One, two, three, four”) ricavato da alcune registrazioni effettuate in studio». Michelangelo Iossa, “Le canzoni di George Harrison. Commento e traduzione dei testi” (Editori Riuniti, 2006)


“George ha sempre guardato John come un vero e proprio riferimento; Paul era già più vicino, in quanto era compagno di scuola di George. Infatti, fu proprio Paul a consi
gliarlo al “capitano/fondatore” John. Nel 1966, quindi, cambia il peso di George in “Revolver”: in questo disco c’è “Taxman”, che apre il disco (un onore incredibile), “Love you to”, che è il primo brano in cui vengono utilizzati in maniera massiccia gli strumenti indiani, e poi “I want to tell you”, che è una ballata rock molto complessa. George, che era considerato il “mediano” dei Beatles, dimostra di essere un fuoriclasse come John e Paul nello scrivere canzoni. Dal 1966, George Harrison non si ferma più, e iniziano i suoi grandi colpi: “Within you without you”, “The inner light”, “While my guitar gently weeps”, “Here comes to sun” e, ovviamente, Something.

La più straordinaria composizione dell’intera carriera di Harrison vanta un testo di indubbia delicatezza espressiva, interamente dedicato alla moglie Pattie Boyd: unico brano dei Beatles interpretato da Frank Sinatra, “Something” venne definita da quest’ultimo “la più bella canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni”». Michelangelo Iossa, “Le canzoni di George Harrison. Commento e traduzione dei testi” (Editori Riuniti, 2006)


Quanto c’è di vero nella citazione ”E se il motore dei Beatles fosse George Harrison?” presente nel tuo libro?

“Alla fine degli anni Sessanta escono gli ultimi album dei Beatles, “Abbey Road” (1969) e “Let It Be” (1970), e George Harrison ha accumulato tanto di quel materiale, che non vede l’ora di intraprendere la carriera solista. E, infatti, dopo lo scioglimento dei Beatles, sarà lui stesso, insieme al grande creativo Ringo Starr – il quale sfornerà hits da primo posto in classifica, come “It don’t come easy”, “Photograph”,”Back off boogaloo” – il Beatle che riuscirà a sorprendere più di tutti l’ambiente musicale del 1970, con l’album All Things Must Pass, uno dei dischi tripli più importanti dell’intera storia del rock. La domanda dei critici musicali dell’epoca fu spontanea: “Vuoi vedere che “Something” e “Here comes to sun” erano soltanto la punta di un iceberg?”. Ed era effettivamente così: George Harrison, nell’arco di 2 anni, sforna un capolavoro di album ed organizza il primo grande concerto benefico della storia.    
Non ci dimentichiamo, infatti, che George Harrison non solo era il chitarrista “virtuoso” del gruppo, ma è stato anche quello che hai introdotto, per la prima volta, suoni di culture “altre”. I due “intellettuali”, in questo senso, sono stati Brian Jones dei Rolling Stones e George Harrison dei Beatles: il primo, produsse il primo disco di musica world – “Brian Jones Presents the Pipes of Pan at Joujouka” (registrato nel 1968 e pubblicato nel 1971) – dove lui registrava gli strumenti a fiato del popolo di Joujouka; il secondo, invece, introdusse il sitar in “Norvegian wood” (1965). Probabilmente, senza quel sitar l’approccio alla word music sarebbe stato molto più lento: se la band di maggiore successo di tutti i tempi utilizza degli strumenti di altre culture, l’interesse globale diventa immediato e concreto. Il valore di Harrison, da un punto di vista dello strumento, è sempre stato assoluto: addirittura, era considerato uno dei più grandi chitarristi della sua generazione – i Beatles stessi si vantavano di avere il più grande chitarrista di Liverpool. Nel tempo, soprattutto dal 1965-66 in poi, cresce il suo valore di “songwriter”, che esplode con “ALL THINGS MUST PASS”. Nessuno del mondo del rock avrebbe immaginato che George Harrison potesse pubblicare un disco di quella portata, volumetricamente e qualitativamente parlando.


Dato che è passato mezzo secolo dall’uscita del disco, come lo vedi “All Things Must Pass” nel 2021?

“Decisamente invecchiato molto bene. Ci sono delle ingenuità, ma non dimentichiamoci che George Harrison ha composto “All Things Must Pass” a soli 26 anni. Infatti, secondo me, il disco più compiuto della sua carriera è “Cloud Nine” (1987), in cui troviamo un Harrison quarantenne nel pieno della sua maturità sia artistica che spirituale. Addirittura si diverte con il brano “When we was Fab”, un’auto-ironia che solo lui può permettersi (gli altri “Fab” erano molto seriosi nei confronti dei Beatles). Durante le interviste, infatti, ha sempre ribadito un concetto fondamentale per comprendere il suo percorso di vita: il contatto con l’India – e con tutta la spiritualità che ne consegue – gli ha salvato la vita. Infatti, George Harrison ha avuto la forza non solo di distaccarsi dall’ingombrante eredità musicale dei Beatles, ma, anche, di sfornare degli eccellenti dischi cesellati, attuando un vero e proprio lavoro di grande artigianato. A dimostrazione di ciò, anche un album come “GONE TROPPO” (1982), che non andò particolarmente bene in classifica, rimane un album di straordinaria caratura artistica. Inoltre, George Harrison aveva una gerarchia dei valori completamente capovolta rispetto alle rockstar: dichiarava più volte di voler essere ricordato come un buon chitarrista ed un eccellente giardiniere. Insomma, una personalità molto particolare ed apprezzata, amatissimo da tutti i musicisti con cui suonava. Tornando alla domanda, dobbiamo ricordare che l’album “All Things Must Pass” – il primo disco di un ex-Beatles registrato con dei session-man internazionali – rappresenta una vera e propria “bomba” nel panorama rock del 1970: neanche i Beatles avevano mai pubblicato un triplo album (al massimo si erano spinti al doppio con il “White Album” del 1968). Cacciare un triplo album era una notevole dimostrazione di forza, e solo una figura come George Harrison poteva andare oltre gli stessi Beatles, appena sciolti. Tale disco, infatti, lancia una carriera solista di tutto rispetto, dimostrando che, anche colui che era considerato il terzo uomo nei Beatles, sarebbe stato un primissimo attore in un’altra band. Non è un caso che i Beatles fossero denominati “The Fab Four”, dato che ognuno dei membri del gruppo aveva una forza artistica considerevole.
Infatti, questo album rappresenta molto di più di un semplice lavoro artistico:

  • 1) dimostra che George Harrison era al pari di John Lennon e Paul McCartney;
  • 2) fa crescere la figura di Harrison nell’immaginario collettivo;
  • 3) fa nascere la figura della rockstar che si occupa di temi “ingombranti”, quali la morte, la spiritualità, Dio;
  • 4) instaura una coscienza spirituale nel mondo del rock (quando nel 1984 Bob Geldof vuole dare vita a quello che sarà il “Do they know it’s Christmas?”, la prima persona a cui telefona è George Harrison);
  • 5) diventa uno scrigno preziosissimo per le composizioni musicali future (ad esempio, Rino Gaetano utilizza gli accordi della strofa di “Isn’t it a pity” per “Tu, non essenzialmente tu”).”


Il mio brano preferito del disco è “All things must pass”, perché mi ha aiutato ad uscire da una complicata crisi esistenziale. Qual è, invece, il tuo brano preferito del disco?

“Scelgo due brani. Il più importante per me, da un punto di vista personale e simbolico, è “The art of dying”. È incredibile come un giovane Harrison – a quasi ventisette anni – spieghi “l’arte di morire”. Questo brano, in realtà, fa il paio con il percorso che lui ha fatto con i Beatles in “The inner light” del 1968: «The farther one travel / The less one knows» (“Più lontano si viaggia / Meno si conosce). Quello di Harrison è tutto un “viaggio spirituale circolare” in cui anche la morte è parte del percorso.

Era la prima volta che un Beatle, simbolo stesso di vitalità e innocenza, affrontasse un tema così sgradevole come la morte tramutandolo addirittura in elemento d’ispirazione di una canzone pop». Michelangelo Iossa, “Le canzoni di George Harrison. Commento e traduzione dei testi” (Editori Riuniti, 2006)


“Dal punto di vista del George Harrison musicista ed innovatore musicale, è sicuramente “My sweet Lord”, non tanto per la struttura della canzone – ai limiti del plagio del brano “He’s so fine” (The Chiffons) del 1963 – ma per ciò che accade: una rockstar che parla di Dio, chiamandolo con tutti i suoi nomi. La cosa incredibile è che tale brano arriva al primo posto in oltre 40 paesi in tutto il mondo, e lui risulta comunque credibile come rockstar. George Harrison insegna che la dimensione spirituale non toglie nulla all’autorevolezza della rockstar, anzi, riesce addirittura a migliorarla.

Fu la versione dello spiritual tradizionale “Oh happy day” degli Edwin Hawkins Singer a ispirare la composizione di “My sweet Lord”. […] “Sapevo che pubblicare questa canzone avrebbe significato espormi pubblicamente: molte persone hanno paura delle parole “Dio” e “Signore”, in qualche modo se ne sentono irritati”, spiegò l’ex Beatles».  Michelangelo Iossa, “Le canzoni di George Harrison. Commento e traduzione dei testi” (Editori Riuniti, 2006)


Al di là delle polemiche sul costo eccessivo dell’Uber Box (Deluxe Version), cosa ti auguri da questa riedizione del disco?

“Incredibilmente, da quell’album ad oggi, non c’è stata nessun’altra figura tra le grandi rockstar ad aver raggiunto una dimensione spirituale così credibile e completa come quella di George Harrison. Mi auguro che questa riedizione del disco venga accolta con il suo valore storico – non dimentichiamoci che “All Things Must Pass” ha cinquantun’anni di età – e che ci ricordi che da quel disco si sono aperte mille strade, che hanno ispirato i vari Bono, Sting, Bruce Springsteen, Bob Geldof. Se oggi noi amiamo il Bono che si pone come voce della coscienza collettiva, lo dobbiamo alla figura ispiratrice di George Harrison. Inoltre, “All things must pass” è un messaggio estremamente attuale: “tutto dovrà passare”, che siano beghe tra componenti dei Beatles (ad esempio, quelle tra John e Paul), o pandemie mondiali (il Covid-19 attuale); il sole prima o poi risorgerà per tutti.

Sunrise doesn’t last all morning
A cloudburst doesn’t last all day
(…)
All things must pass
All things must pass away

Un’alba non può durare un intero mattino
Un temporale non può durare un’intera giornata
(…)
Ogni cosa deve concludersi
Ogni cosa deve avere un termine».  

Michelangelo Iossa, “Le canzoni di George Harrison. Commento e traduzione dei testi” (Editori Riuniti, 2006)

Consiglio personale sull’acquisto: All Things Must Pass 50Th (Deluxe Edt. 3 Cd)


Michelangelo Iossa

Giornalista e scrittore, collabora da quasi trent’anni con alcune delle più importanti testate italiane. Contributor del Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera e di altri periodici del gruppo RCS, ha firmato reportage, special radiofonici e televisivi. Dal 1999 è docente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e cura due insegnamenti legati al mondo della comunicazione e il Laboratorio di Musicologia. Ha firmato libri su icone della musica italiana e internazionale, da Pino Daniele a Michael Jackson.

Il suo ultimo volume è 007 Operazione Suono, dedicato alle musiche della saga cinematografica di James Bond. Iossa è tra i più autorevoli biografi italiani dei Beatles, a cui ha dedicato sei differenti libri pubblicati tra il 2003 e il 2016, e ha ricevuto il Premio per l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2004.



— Onda Musicale

Tags: George Harrison, All Things Must Pass
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