Per chi non l’avesse mai sentita nominare, Laura Nyro costituisce insieme a Joni Mitchell e Carole King la santissima trinità del cantautorato femminile americano nato a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, ma a dispetto di un talento non meno cristallino, purtroppo, non ha mai raggiunto neanche lontanamente il successo delle altre due “compagne di pianoforte”.
Certo, nome di Laura Nyro non è mai stato del tutto dimenticato (Elton John, Peter Buck, Rickie Lee Jones, Alice Coltrane e la stessa Joni ne hanno più volte tessuto le lodi), ma al netto di alcuni artisti illumina(n)ti e di una parte della critica, l’ex ragazza prodigio di New York non ha mai ricevuto il giusto riconoscimento da parte del grande pubblico.
Almeno non direttamente, visto che molte delle sue canzoni in realtà sono state grandi successi per altri (tra cui ricordiamo almeno Barbra Streisand con Stoney End, i5th Dimension con Wedding Bell Blues e i Three Dog Night con Eli’s Coming).
A rimettere le cose nella giusta prospettiva, allora, ci prova oggi American Dreamer, splendido cofanetto di otto vinili contenente i primi sette album incisi dalla cantautrice tra il 1967 e il 1978 – More Than a New Discovery (1967), Eli and the Thirteenth Confession (1968), New York Tendaberry (1969), Christmas and the Beads of Sweat (1970), Gonna Take a Miracle (1971), Smile (1976) e Nested (1978) – più un ulteriore disco di inediti e rarità.
A fronte di tanta meraviglia non possiamo esimerci dal (rac)cogliere anche noi l’occasione per ripercorrere le tante vite musicali di Laura Nyro, nella speranza di fare nuovi proseliti e di non lasciare inascoltate musiche e parole che avrebbero meritato ben più fortunato destino.
Chi è Laura Nyro?
Nata il 18 ottobre 1947, nel periodo astrologico della cuspide tra Bilancia e Scorpione (unione di stile e oscurità), Laura Nyro comincia a cantare e suonare fin da giovanissima per le strade del Bronx di New York, ma la sua musica è quanto di più raffinato e distante ci possa essere rispetto all’immaginario del quartiere più malfamato della grande mela (qualcuno l’ha definita la “Brontë del Bronx”). Le sue canzoni “multistrato” a un primo ascolto possono risultare un po’ ostiche perché spesso non seguono lo schema classico della forma canzone, ma si avvicinano più a una composizione di musica classica formata da vari movimenti accostati divinamente tra loro. È probabile che sia semplicemente questo “il segreto del loro insuccesso” su larga scala, ma al tempo stesso anche del loro fascino irresistibile sul lungo periodo. Come nelle migliori relazioni umane bisogna concedere loro tempo e fiducia per permettergli di instaurare una connessione profonda con noi, ma una volta entrati nella loro rete, fatta di continue variazioni stilistiche e vocali, ci si rimane imbrigliati per sempre.
Come ha dichiarato la cantante e attrice Bette Midler nel suo discorso di introduzione alla Rock and Roll Hall of Fame del 2012: “Laura Nyro era in grado di trasformare un salto al negozio di alimentari in una serata al teatro dell’opera”. Non avendo conoscenze musicali teoriche, era proprio con frasi di questo tipo che la stessa Nyro descriveva la sua musica in sala di incisione per far capire ai musicisti che la accompagnavano come dovevano suonare. Non era raro sentirle dire cose tipo “qui voglio un po’ di azzurro con qualche tocco di bianco” oppure “un’arpa di lavanda”, “un suono di sabbia” o ancora “voglio che questo brano suoni come la mia sedia” e casualmente (o forse no) era la stessa identica cosa che faceva anche Joni Mitchell, limitandosi, però, all’uso dei colori mutuato dalla sua passione per la pittura.
Non a caso la cantautrice canadese dedicherà un intero disco a un colore: il Blu del blues, al quale la stessa Nyro girerà intorno con vari brani come Billy’s Blues, Woman’s Blues enaturalmente Wedding Bell Blues (portato al numero uno in classifica dai 5th Dimension), ma anche e soprattutto con un verso di Lonenly Women che, nella sua brevità, la dice lunghissima sul mood esistenziale della prima Nyro.
And no one knows the blues like lonely women do
(Nessuno conosce il blues come le donne sole)
Ma il suo primo vero singolo Laura lo scrive già a 16 anni, dandogli un titolo –And When I Die – da epitaffio prematuro e al tempo stesso anche tristemente profetico, considerato che la morte la porterà via a soli 49 anni per un cancro alle ovaie. Se Il Giardino delle Vergini Suicide di Jeffrey Eugenides ci ha insegnato che anche le adolescenti pensano alla morte, questo brano riesce comunque ad essere spiazzante per l’estrema maturità con cui l’argomento viene affrontato, epurandolo di tutta la sua drammaticità e lasciandoti addosso “solo” una pacifica sensazione di accettazione-rassegnazione al ciclo naturale della vita.
And when I die, and when I’m dead, dead and gone
There’ll be one child born and a world to carry on
I’m not scared of dyin’ and I don’t really care
If it’s peace you find in dyin’, well, then let the time be near
TRA CONCERTI E AUDIZIONI
Un altro momento chiave per comprendere la Laura Nyro degli esordi – ma anche quella del futuro – è la sua esibizione al Monterey Pop Festival del ’67. Immaginatevi la scena: davanti a una folla di figli dei fiori urlanti ed eccitati per le esibizioni incendiarie di Jimi Hendrix (letteralmente) e Janis Joplin (metaforicamente), una Laura non ancora ventenne si presenta sul palco in elegante abito nero a cantare le sue canzoni newyorkesi sofisticate e fuori contesto. Non sarà certo un successone, anche se non è assolutamente vero che la fischiarono tutti come è stato riportato da alcuni cronisti dell’epoca, anzi dalle immagini del documentario di D.A. Pennebaker si possono sentire chiaramente gli applausi finali.
La ragazza, in ogni caso, preferirà non avere più nulla a che fare con i grandi eventi di quel tipo (vedi Woodstock due anni dopo) e deciderà di esibirsi soltanto in luoghi al chiuso più raccolti e soprattutto mai più senza la protezione del suo pianoforte. Partita così da un locale di cabaret di San Francisco nel febbraio del ‘67 finirà per fare il tutto esaurito alla Carnegie Hall di New York nel ‘71 e sarà quello il suo punto di massimo splendore.
Laura non ha mai amato particolarmente le luci dei riflettori o forse le luci in generale. Particolarmente significativo in questo senso è un altro evento chiave della sua carriera, ovvero quello dell’audizione presso la Columbia Records di Clive Davis, organizzata dall’amico, collaboratore e ammiratore David Geffen: infastidita dalle luci dell’ufficio, Laura farà spegnere tutto e si esibirà nella quasi totale oscurità, illuminata soltanto da un televisore rimasto acceso. Il trucco funzionerà e quando si riaccenderanno le luci la Nyro avrà in mano una penna per firmare un nuovo contratto con suo il destino.
Se il primo album pubblicato nel ’67 per la Verve Records era ancora un po’acerbo, i suoi due successori per la Columbia – ovvero Eli and the Thirteenth Confession del ‘68 e New York Tendaberry del ’69 – sono, invece, due miniere d’oro da annoverare tra i suoi album migliori: un’ode alla propria intimità oscura (il primo) e un’altra ode alla sua città natale (il secondo), quella New York che non è solo una città, ma una religione. Esattamente come lo è anche la sua musica nella quale confluiscono tutte le influenze musicali e artistiche della città: dalla poesia della beat generation e del primo Dylan al Brill Building di Carole King, dal gospel delle chiese di Harlem al jazz dei club del Greenwich Village, con la stella polare del blues sempre fissa nel cielo e i gruppi vocali di doo-wop negli angoli del cuore e delle strade. Il crogiolo musicale della Nyro è qualcosa che nasce dall’humus di questa città, fatta di tante schegge creative impazzite che trovano nel suo canto “gentile come un rasoio” una sorta di centro di gravità (semi)permanente, capace di tenere tutto insieme o di farlo esplodere in un nuovo big bang.
La musica di Laura Nyro è al tempo stesso un universo in espansione e un buco nero che lo inghiotte, basterebbe una Luckie – traccia d’apertura delle tredici confessioni messe in musica nel secondo album – per far esplodere tutte le stazioni satellitari musicali concepibili dalla nostra mente.
L’album successivo – Christmas and the Beads of Sweat – non farà altro che confermare questa meravigliosa instabilità, pur non riuscendo a mantenere sempre lo stesso livello di tensione emotiva – se non in una mastodontica Map To The Treasure, che conduce al tesoro del titolo lungo un percorso tortuoso di otto minuti infiniti, dettato dai passi di un pianoforte delicatamente impazzito.
In seguito ci sarà spazio anche per un disco di cover (Gonna Take a Miracle) inciso insieme alle Labelle (sì quelle di Lady Marmalade) prima di giungere al fatidico matrimonio con un falegname di nome David Bianchini e al conseguente ritiro dalle scene per una tranquilla vita di campagna. Fortunatamente per noi (e come vedremo anche per lei) il matrimonio non durerà che quattro anni, al termine dei quali Laura tornerà a incidere nuova musica con due album – Smile del ’76 e Nasted del ‘78 – forse non all’altezza dei precedenti, ma comunque ancora capaci di tirare fuori alcune gemme, come quel sorriso amaro stampato sulla title track del primo oppure quell’American Dreamer che spezza a metà il secondo, segnando una nuova battuta d’arresto, stavolta decennale.
In mezzo ci sono prima la nascita di un figlio con un padre che svanirà nel nulla e poi una nuova relazione, sta volta con una donna di nome Maria Antonio Desiderio (nomen (w)omen?).
Purtroppo il cofanetto di vinili appena pubblicato non prende in considerazione l’ultima parte della sua carriera, quando, al di là della nuova vita sentimentale, Laura “sposerà” anche due nuove cause, dedicandovisi anima e corpo: quella femminista in primis (da un certo momento in poi suonerà soltanto con altre donne) e quella ambientalista subito a seguire. In realtà entrambe le battaglie si stavano già combattendo da tempo dentro di lei ed erano venute fuori nel brano Mother’s Earth eseguito durante un concerto al Fillmore East Auditorium nel’71 (rimasto inedito fino al 2004, quando venne finalmente pubblicato il live di quella magica serata sotto il titolo Spread Your Wings And Fly).
Otto minuti che riconciliano con la natura dell’universo e del resto
se credi nella madre terra, lei ti guarirà: You believe in Mother Earth / She will heal you.
Nel 1990 in occasione del Earth Day eseguirà la sua Broken Rainbow scritta in favore dei nativi americani:
Native American Nation
Caught in the devastation
An endless situation
What can I do?
The ghost of prejudice
Cuts thru the moonglow
Poet on a crying page –
Broken Rainbow
Da questa nuova vita verranno fuori – a distanza di molti anni l’uno dall’altro – soltanto altri due dischi minori – Mother’s Spiritual dell’84 e Walk The Dog and Light the Light del ’93 – che nulla tolgono e nulla aggiungono a una carriera di indubbio spessore artistico, per quanto spesso tenuta (volutamente?) nascosta dalle luci della ribalta. Anche quando sarà malata e costretta a suonare davanti a poche decine di persone, Laura non accetterà mai di cedere i diritti delle proprie canzoni per il loro utilizzo nei film, quando oggi quasi tutti i musicisti farebbero carte false pur di finire nella colonna sonora di una serie Tv o anche soltanto in un video virale di Tik Tok.
Del resto se sul social musicale più diffuso al mondo un brano come You Only Call Me When You’re High degli Arctic Monkeys ha fatto faville tra gli adolescenti, non tanto per il suono quanto per il suo significato, vi immaginate cosa potrebbe fare una canzone come You Don’t Love Me When I Cry?
Un brano che come potete leggere nei commenti di Youtube è il suono di un cuore che si spezza o come ha detto ancora meglio Ellen Steingart – sintetizzando in una riga la capacità principale di Laura Nyro
faceva sembrare la sofferenza un qualcosa di meraviglioso, la nobilitava”.
Domande che probabilmente resteranno senza risposta essendo quello di Laura Nyro un altro mondo in tutti i sensi possibili e immaginabili.
Personalmente, di questo mondo impossibile sull’orlo dell’oblio, consiglio di recuperare quanto meno anche il disco postumo Angel in The Dark, che già dal titolo lascia presagire cosa ci sia dentro, ma anche cosa ci sia dietro a questa artista immensa: un’oscurità abbacinante che continuerà a brillare a modo suo.