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Neil Young e il suo esordio solista, un album dimenticato da riscoprire

Neil Young, la copertina del primo disco

Il 12 novembre del 1968 esce Neil Young, il primo disco solista del grande rocker canadese. L’album non è annoverato tra i migliori di Neil, ma ha comunque grande valore storico.

Nel 1968 Neil Young è un giovane di 23 anni ma che ha alle spalle già tante esperienze di vita. Nato a Toronto il 12 novembre del 1945, passa un’infanzia tribolata a causa di una serie di problemi di salute. La sua salvezza, come nel più classico dei romanzi di formazione, arriva attraverso la musica. Giovanissimo, forma una garage band e fa le prime esperienze nel circuito folk.

In questo periodo conosce due musicisti che saranno importanti nella sua vita, Joni Mitchell e Stephen Stills; inizia anche a comporre, di quegli anni è la celebre Sugar Mountain.

Dopo aver suonato nei The Squires, fonda i Mynah Birds, assieme alla futura star del funk Rick James. Proprio quando il complesso sta per registrare l’album di debutto con la Motown, James viene arrestato per renitenza alle armi e salta tutto. Pare un duro colpo, ma a posteriori potrebbe rivelarsi un incrocio di destini decisivo.

Siamo nel 1966 e Neil Young a quel punto sceglie di tentare la fortuna negli Stati Uniti; parte col bassista Bruce Palmer: rimarrà per anni negli Usa, peraltro anche in modo illegale, almeno inizialmente.

A Los Angeles si riunisce con Stills: nascono i Buffalo Springfield. La band diventa in breve tempo una delle punte di diamante del movimento californiano, tuttavia la giovane età, il precoce successo e i caratteri spigolosi dei componenti decretano la fine del progetto.

A quel punto – come si diceva – Neil Young non ha ancora 23 anni e viene messo sotto contratto dalla Reprise, etichetta dove milita l’amica Joni Mitchell, come solista.

Il primo album viene registrato in fretta, come usa in quegli anni, e risulta acerbo soprattutto in fase di produzione. Neil stesso dichiarerà che il sound del lavoro risulta troppo artefatto, patinato e con troppe sovraincisioni.

Si tratta comunque di una breve parentesi; l’album esce alla fine del ’68 – anche se molti sono convinti che sia uscito a inizio ’69, per un vecchio equivoco sulla prima ristampa – e pochi mesi dopo Neil ha già messo assieme i Crazy Horse, la sua band.

Sono anni di grande fermento, di decisioni prese in fretta, di innamoramenti repentini e altrettanto veloci liti. Con i Crazy Horse Young esce già a maggio del ’69 con Everybody Knows This is Nowhere; il tempo di qualche settimana e l’eclettico canadese ha già seguito Stills, Nash e Crosby in un’avventura che li consegnerà alla leggenda.

Ma è il momento di concentrarsi su Neil Young, il vero e proprio debutto solista del chitarrista canadese.

Come detto, il disco esce il 12 novembre del 1968, giorno del ventitreesimo compleanno di Neil Young. La produzione è dello stesso Neil, che in molti brani viene coadiuvato da David Briggs e Jack Nitzsche. Nella formazione – e in qualche canzone anche come produttore – spicca un nome celebre: Ry Cooder, all’epoca chitarrista di belle speranze.

La Reprise all’epoca insiste per registrare il lavoro trattandolo con la tecnica Haeco-CSG; in sostanza si tratta di una nuova tecnologia volta a migliorare la resa dei prodotti stereo in versione monofonica, allora molto diffusa. Il risultato non convince, tanto che già a gennaio del ’69 si procede con una sorta di remix totale del disco, commercializzato durante lo stesso anno.

Anche la copertina, una sorta di ritratto impressionista di Young, viene modificata, aggiungendo una fascia bianca con nome e cognome.

Il disco si apre con The Emperor of the Wyoming, breve bozzetto country strumentale. Il brano scivola via come acqua fresca, proponendo tutti i cliché del genere, tra chitarre lap steel e violini. La bella melodia suonata dalla chitarra elettrica, semplice ma evocativa, è il vero punto di congiunzione tra questo debutto e la futura grandezza di Neil Young.

Il secondo pezzo ci porta subito nella leggenda: The Loner.

Il brano, ampiamente autobiografico, riscuoterà sicuramente più fortuna nelle tante versioni live, più secche dell’originale. La struttura della canzone è quella tipica di tanti capolavori di Neil Young, un attacco duro che prelude a un ritornello più posato, che si apre a una dolce melodia. L’arrangiamento di questa versione è sicuramente sovraprodotto, molto meglio le rese più rock coi Crazy Horse.

Il brano viene comunque proposto come singolo; la chitarra e la voce di Young sono acide ed efficaci, ma forse troppo educate rispetto a quella che sarà la cifra del canadese.

La successiva If I Could Have Her Tonight è una bella ballata, forse leggermente penalizzata anche qui dall’arrangiamento. In sostanza quello che manca è un po’ il tipico mood tra folk e svisate acide; è tutto un po’ troppo precisino, per così dire. Gli strumenti sembrano a metà tra Buffalo Springfield e Beatles, la voce di Young è forse più intonata di quanto non sarà in seguito, ma manca un po’ di feeling.

Nulla di grave, considerato che si tratta pur sempre del debutto.

Si prosegue con I’ve Been Waiting for You, altro pezzo ben strutturato ma per cui valgono le considerazioni fatte in precedenza; in più, però, il pezzo vanta una bella parte di chitarra acida che anticipa il Neil Young più grezzo dei Crazy Horse. Il lato A si chiude con The Old Laughing Lady, altro brano che godrà di buona fortuna.

Il pezzo, cavallo di battaglia anche nel fortunato Unplugged registrato per Mtv, ha qui una resa leggermente più patinata; al centro c’è addirittura una sorta di intermezzo quasi jazzato e gli archi sono forse un po’ troppo invadenti, così come i cori decisamente black. Si tratta comunque di un piccolo capolavoro, che chiude degnamente la prima facciata del disco.

Il lato B si apre con una curiosa composizione di Jack Nitzsche, all’epoca molto attivo nelle colonne sonore, String Quartet from Whiskey Boot Hill. Pur piacevole, il brano si rivela una sorta di falsa partenza, prima che il pianoforte di Here We Are in the Years apra il pezzo successivo. Siamo di fronte a una bellissima ballata di ispirazione beatlesiana, di grande impatto, con il falsetto di Young che regala buone vibrazioni.

What Did You Do to My Life? e I’ve Loved Her so Long sono ancora due belle ballate ma un po’ evanescenti, che non aggiungono troppo a quanto fatto in precedenza. Specie la seconda è un po’ penalizzata da cori femminili troppo invadenti.

L’album si chiude però con un salvifico colpo di coda, The Last Trip to Tulsa.

Si tratta di una ballata-fiume, alla maniera del Bob Dylan più allucinato; finalmente la voce di Neil Young è quella che lo renderà una leggenda, un falsetto appena sussurrato, non sempre preciso ma dotato di una suggestione impareggiabile. La chitarra acustica è l’unico accompagnamento, senza altri orpelli e col lavoro grezzo ma eclettico di Neil. Il testo si muove per immagini, un po’ come per certe cose di Dylan; a tratti pare quasi di assistere a un film.

Neil Young, in sostanza, è un esordio che lascia solo a tratti intuire la grandezza futura del suo autore; probabilmente lo stesso Neil all’epoca non è ben conscio di cosa si addica di più al suo stile e si lascia prendere un po’ la mano con gli arrangiamenti. Con un po’ di feeling in più e una produzione meno patinata, Neil Young sarebbe stato un piccolo capolavoro.

Ma, come detto, gli anni erano quelli in cui non si stava troppo a rimuginare sui dischi prima di farli uscire; nel giro di pochi anni il buon Neil vivrà la leggendaria esperienza dei CSN&Y, inciderà capolavori come Harvest e After the Gold Rush e diventerà uno dei nomi più importanti della storia del rock. Forse un esordio bello ma acerbo gli si può perdonare.

— Onda Musicale

Tags: Neil Young, Joni Mitchell, Stephen Stills, Crazy Horse
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