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Jeff Buckley: nella sua storia si piange almeno tre volte

Leggendo la storia della vita di Jeff Buckley, figlio del grande Tim, si piange almeno tre volte.

La prima è quando nasce

Il piccolo Jeff viene alla luce il 17 novembre 1966, ma non fa in tempo ad uscire dalla pancia della madre Mary che si ritrova già abbandonato dal padre Tim. Non un Tim qualsiasi, ma Tim Buckley,il Navigatore di stelle”, anche se all’epoca non aveva ancora pubblicato l’album-capolavoro che gli valse quel soprannome – Starsailor, infatti, uscirà solo nel 1970. Anzi, in realtà non aveva ancora pubblicato niente, ai tempi era soltanto una giovane promessa in attesa di essere mantenuta, un talento pronto a esplodere come un big bang, con una voce “immaginifica” capace di creare interi universi, galassie e buchi neri, qualcuno disse addirittura che “Tim fece per la voce ciò che Hendrix fece per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono”.

Ma allo stesso tempo era anche un ragazzo che si era ritrovato padre troppo presto e aveva preferito scappare dalle sue responsabilità piuttosto che rischiare di sacrificare il suo sogno e la sua carriera per un figlio che manco voleva. Quindi ciao ciao Jeff, I Never Asked To Be Your Mountain, benvenuto al mondo.  

I Never Asked To Be Your Mountain  era la canzone che Tim Buckley aveva scritto per la madre di Jeff nel tentativo vano di giustificarsi con l’arte – e nell’arte – per averli abbandonati entrambi mentre lei era ancora incinta:

“Non so nuotare nelle tue acque/ Né tu camminare nelle mie terre/ Navigherò solitario tutti i miei peccati e scalerò le mie paure/ E presto, subito spiccherò il volo/ Non ho mai chiesto di essere la tua montagna”.

Niente male, ma comunque un po’ pochino come motivazione da dare a una moglie e a un figlio che crescerà senza conoscere il suo vero padre fino all’età di 8 anni.

Ed è qui che arriva la seconda lacrima.

Una sera del ‘75 la madre di Jeff viene a sapere che ci sarà un concerto di Tim dalle sue parti; decide allora di chiamarlo – anche se ormai non si sentono più da anni – e gli dice che se fosse possibile il bambino vorrebbe venire a vedere l’esibizione. Nessun problema. Anzi, dopo il concerto Tim e Jeff finiranno per passare alcuni giorni assieme durante le vacanze di Pasqua. Un lasso di tempo certamente troppo breve per recuperare tutto quello passato, ma quanto meno sufficiente a instaurare un primo legame padre-figlio fino ad allora inesistente.

Quando Jeff tornerà a casa dalla madre stringerà nella mano un numero di telefono scarabocchiato sopra un pacchetto di fiammiferi e nel cuore una promessa: quella di passare ancora un po’ di giorni col padre durante le vacanze estive.

Purtroppo però quell’estate non arriverà mai perché la sera del 29 giugno 1975 Tim finirà in overdose da eroina e lascerà per sempre questo mondo. La loro “fantasmagoria in due” appena iniziata era già finita. Ciao ciao di nuovo Jeff, anzi ciao e addio, addio e ciao – Goodbye and Hello.

Non possiamo quindi dire che Jeff abbia scoperto la musica grazie a suo padre. Anzi è vero esattamente il contrario: Jeff scopre la musica nella sua assenza. Perché fin dalla nascita deve colmare un vuoto. Così da adolescente incontra la musica rock per conto suo (soprattutto Led Zeppelin e Rush ) e quando sarà un po’ più grande inizierà a “cantare” per la sua strada. O meglio a suonare, perché inizialmente di cantare non ne ha alcuna voglia.

Nel 1984 si iscrive al Musicians Institute di Hollywood e fino all’inizio degli anni ‘90 suona nei gruppi più disparati, passando dal progressive al jazz e dal raggae all’hard rock. Diventa musicalmente onnivoro. La stessa cosa farà poi con il canto, dentro al quale ci potete trovare non solo Robert Plant e Geddy Lee, ma anche Billie Holiday, Judy Garland, Edith Piaf, Nina Simone, Sly Stone, Curtys Mayfield, Kurt Cobain, Chris Cornell e Nusrat Fateh Ali Khan – oltre naturalmente a suo padre Tim – anche se per il momento lo tiene da parte, tirandolo fuori soltanto in privato davanti all’amica Carla Azar, che ne resterà profondamente colpita.

Per forza. Il ragazzo è bravo. Cristo santo se è bravo, “era capace di prendere il passato e il presente e di trasformarli in un futuro etereo”, “riusciva a risvegliare nelle persone il senso di chi erano veramente nel profondo delle loro passioni”. Forse era persino più bravo del padre. E prima o poi se ne accorgeranno tutti. Succede la sera del 26 aprile 1991.

E questa è la terza volta

Ovvero quella in cui la lacrima che scende sfocia nel mito – “una goccia pura in un oceano di rumore” –  come verrà definito lo stesso Jeff qualche anno più tardi.

È la prima volta che Jeff canta davanti a un pubblico vero e lo fa dentro una chiesa di Brooklyn in occasione di un concerto-tributo organizzato per omaggiare suo padre: Greetings From Tim Buckley, il nome della serata alla quale parteciperanno tra gli altri anche Eric Andersen, Richard Hell e Gary Lucas, futuro coautore di Grace, l’album d’esordio di Jeff Buckley, pubblicato nel 1994.

Ma tornando a quella sera del ‘91, Jeff si ritrova catapultato quasi per caso sul palco destinato a omaggiare il talento scomparso di suo padre: fino a pochi giorni prima, infatti, gli organizzatori del concerto non sapevano neanche della sua esistenza.

Una volta arrivato e accordata la chitarra, lui stesso teso come le sue corde, deve aver pensato “Ok, allora sono qui, ma adesso che faccio? Come comincio?”. Probabilmente si sarà risposto che neanche lui aveva mai chiesto di essere la montagna di suo padre, eppure era lì lo stesso. Così, la prima canzone che Jeff Buckley canta in pubblico è proprio quella che suo padre ha scritto per abbandonarlo: I Never Asked To Be Your Mountain, le cui ultime parole sembrano quasi mescolare i rimpianti e i desideri di entrambi, come se le due figure si sovrapponessero per pochi istanti e non si capisse più chi è il padre e chi il figlio:

Prendi, per favore, la mia mano

Lascia fuori tutte le tue paure

Me ne sono andato troppo a lungo

E ora sono qui per restare

Non lasciarmi

Ancora così

Per piacere, torna

E questo non è che l’inizio, in mezzo c’è tempo per eseguire anche The King Chains e Phantasmagoria in Two. Dopodiché – per i pochi che non si erano ancora straziati il cuore abbastanza nel sentire la voce di un figlio ferito cantare il padre – Jeff viene lasciato solo sul palco per l’esecuzione finale di Once I Was, talmente carica di tensione che giusto un attimo prima dell’ultimo ritornello si rompe una corda della chitarra, forse un messaggio dall’alto al quale Jeff risponde andando avanti a cantare a cappella:

Qualche volta mi domando

Sebbene solo per un attimo.

Ti ricorderai di me?

The tear that hangs inside my soul forever

Come detto, nella storia di Jeff Buckley si piange almeno tre volte. Ma siccome oggi sarebbe stato il suo compleanno ne aggiungiamo anche una quarta. Dopo l’enorme successo di Grace nel ‘94, Jeff ha diverse difficoltà a portare a termine il secondo album – che si sarebbe dovuto intitolare “My Sweatheart The Drunk” – ci lavora su costantemente, ma non è mai soddisfatto.

Una sera di fine maggio del ‘97 mentre gira col suo furgone alla ricerca della sala d’incisione dove avrebbe dovuto concludere le registrazioni, si perde insieme all’amico Keith Foti e decide di fermarsi a fare una nuotata notturna nel fiume. Ha bisogno di rilassarsi un po’, gli sembra una buona idea, come vivere in prima persona dentro Moonlight Drive dei Doors. Solo che Jeff non arriverà mai alla luna e finirà per restare intrappolato tra acqua e cielo.  Da quel che sappiamo, prima di essere risucchiato dalla corrente stava cantando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. È morto così, facendo l’unica cosa che l’aveva sempre salvato. Il suo corpo verrà ritrovato soltanto quattro giorni più tardi senza più alcuna traccia di vita.

Le tracce della sua anima invece sono contenute tutte nella sua musica e nel suo modo particolare di cantare, ispirato in parte all’estasi divina dei canti Qawwali nella musica Sufi:  “magistrale come un organo a canne, naturale come un’aurora boreale”.

Come ha scritto Robert Gordon in un suo vecchio articolo:

La voce di Jeff suscitava il desiderio di edificare templi, anche se, adesso, capisco che Jeff Buckley era il tempio stesso della sua voce. La fine improvvisa ha contaminato i ricordi della sua passione, della sua vitalità, e ora non riesco a separare la purezza del suo canto, dalla tragicità del suo fato.

La sua musica in fondo è sempre stata un ultimo abbraccio da cui non ci si riesce veramente a staccare. Pertanto, se ce l’avete ancora, adesso potete anche far scendere l’ultima lacrima oppure lasciarla lì appesa alla vostra anima per sempre.

This is our last embrace

Must I dream and always see your face?

(Last Goodbye)

— Onda Musicale

Tags: Led Zeppelin, Rush, Jeff Buckley, Tim Buckley
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