Periodicamente vengono pubblicate classifiche coi migliori album della storia del rock. Classifiche che lasciano il tempo che trovano, ovviamente. Eppure, c’è un disco in cui suonano assieme una serie di artisti entrati nel mito che non viene quasi mai citato. Quel disco prende il nome da Stephen Stills.
Stephen Stills è infatti il fantasioso titolo dell’opera prima da solista del chitarrista di Dallas. Il lavoro esce nel novembre del 1970, circa otto mesi più tardi di Deja Vu, il capolavoro a firma Crosby, Stills, Nash & Young. In quel momento Stephen Stills è un vero pezzo da novanta del rock, al punto che il suo debutto è la principale uscita natalizia dell’anno, assieme ad All Things Must Pass, triplo album di George Harrison.
Stills deve la sua popolarità al periodo magico della West Coast; il cantautore è infatti uno dei musicisti più quotati, ma è anche un punto di riferimento per tutta la scena della controcultura californiana, al pari di Neil Young, David Crosby e dei Grateful Dead.
Chitarrista prettamente acustico, ha trovato modo di affinare la sua tecnica con la chitarra elettrica assorbendo dai grandi musicisti con cui collabora. Da Jimi Hendrix, suo grande amico, apprende come improvvisare sulle varie scale, dall’amico-nemico Neil Young l’approccio rude e grezzo allo strumento.
Proprio il buon vecchio Neil, il lupo solitario del rock, è forse il personaggio che segna l’esistenza di Stills. Stephen è infatti un giovane musicista in cerca di successo, con la sua lunga zazzera, i basettoni e la mascella squadrata da buon texano, quando incappa nel canadese Neil. I due superano le band con cui hanno sempre incontrato il fallimento e danno vita ai Buffalo Springfield.
La band dura poco, tra vette artistiche e qualche successo, come For What is Worth, simbolo di un’epoca, firmata proprio da Stephen Stills. I due però hanno caratteri che fanno scintille, se posti a contatto, e il complesso ha vita breve.
Ben più proficua si rivela la collaborazione con David Crosby, baffuto eroe hippie, e Graham Nash, inglese che si innamora del suono West Coast.
Prima di fondare i gloriosi CSN, però, Stephen si mette in luce come strumentista in Super Session, con Michael Bloomfield e Al Kooper. È proprio Kooper, disperato, a chiamarlo quando Bloomfield sparisce dopo aver inciso materiale per metà dell’album. Stephen Stills non è la seconda scelta, e nemmeno la terza, in verità; la sua chiamata segue ai rifiuti di Randy California e Jerry Garcia.
Poco importa, Stills si guadagna i galloni di eccellente chitarrista psichedelico; addirittura, si può ipotizzare che il sound miracoloso di Super Session attinga equilibrio proprio dalla diversità tra i virtuosismi blues di Bloomfield e la solidità ritmica del texano.
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Dopo i trionfi con Kooper e coi compari Crosby, Nash e Young, Stephen reputa il momento ideale per debuttare come solista. L’album è funestato da una copertina davvero troppo brutta per essere vera: Stills che suona l’acustica seduto in un panorama innevato. Unica compagnia, una giraffa di peluche.
You can’t judge a book by its cover, cantava Bo Diddley negli anni Cinquanta, e noi seguiamo il suo consiglio. Il parterre del disco è infatti impressionante.
Stephen Stills dà fondo alle sue capacità cantando, suonando le chitarre, il piano, l’organo, il basso, le percussioni e Dio sa cos’altro. Alla chitarra elettrica troviamo come ospiti Jimi Hendrix ed Eric Clapton: difficile pretendere di meglio, all’epoca.
Alla batteria, tra gli altri, si alternano Dallas Taylor e Ringo Starr; ai cori è un profluvio di fuoriclasse: gli amici Crosby e Nash, ma anche Cass Elliot, John Sebastian e Rita Coolidge. All’organo compare anche Booker T. Jones.
Il lavoro viene registrato tra Londra e Los Angeles; circa quaranta minuti di musica in cui Stills ripercorre le sue passioni, dal folk West Coast al blues, dal funk al gospel, con misurati interventi degli archi.
Stephen Stills si apre con Love the One You’re With, singolo killer che diverrà un cavallo di battaglia, riproposto live anche con CSN & Y. Il brano propone il più classico sound West Coast, quello con percussioni, chitarra acustica e coretti che evocano il sole della California e il vento tra i capelli. Il testo occhieggia ironicamente a filosofie hippie e amore libero. Tutto ciò sta per tramontare, ma all’epoca ancora non lo immagina nessuno.
Molto bella anche la parte d’organo, appannaggio dello stesso Stills.
Si prosegue con Do For the Others, ballata acustica che è l’autentico punto d’incontro tra folk e country. Una melodia senza età che ben simboleggia lo spirito del tempo e farà da scuola per band come Eagles e America. Una piccola gemma.
La successiva Church (Part of Someone) è un’improvvisa incursione tra soul e gospel. Stills suona inaspettatamente credibile, sfoggiando una vocalità nera che si staglia sui cori da chiesa pentecostale. Su tutto trionfa l’incedere lento e maestoso, punteggiato dal piano e da un organo che rimane a sonnecchiare sullo sfondo. Il brano si conclude con l’entrata degli archi, proprio sul limitare tra imponenza e stucchevolezza.
Si cambia marcia con Old Times Good Times, tirata rock psichedelica sullo stile di Long Time Coming dei CSN & Y. Un organo elettrico quasi dissonante si agita in sottofondo, mentre una chitarra solista punteggia discreta prima di prendersi la scena. Ascoltatela bene, quella chitarra: è quella di Jimi Hendrix, a cui il disco è dedicato e che scompare un paio di mesi prima del lancio dello stesso.
Nel finale la mano del mancino di Seattle è ben riconoscibile, in un breve assolo al fulmicotone.
“Hendrix e io abbiamo messo insieme un mucchio di cose, questa è una delle poche cose che sono emerse. Era un mio caro amico, eravamo soli a Londra insieme e uscivamo molto. Ho lasciato l’Inghilterra all’improvviso e anni dopo ho saputo da Mitch Mitchell che Jimi mi cercò ovunque. Voleva che mi unissi agli Experience come bassista: sarebbe stato il mio sogno più grande nella vita!”
Il pezzo finisce e subito si sente una chitarra piangere col wah-wah un po’ a caso, prima di trovare la strada assieme al basso e a un riff fulminante. La sei corde è quella di Eric Clapton e il riff è rubato a Born Under a Bad Sign di Albert King, standard blues tra i più coverizzati. Il brano si intitola Go Back Home ed è un’altra delle punte di diamante del disco. Stephen Stills, da buon texano, è a suo agio con la materia blues, qui spruzzata di funk, e canta da par suo. Clapton, ancora lontano dall’abisso degli anni Settanta e dai deliri complottisti di oggi, impreziosisce la canzone con delle parti di chitarra perfette, indolenti e ficcanti.
Bellissimo l’assolo, una delle ultime occasioni di sentire il sound di Slowhand prima della folgorazione di metà anni Settanta, quando Eric si innamora di un suono più dimesso e rilassato.
Il disco è a metà, all’epoca sarebbe stato il momento di girare il vinile sul piatto.
La seconda facciata si apre con Sit Yourself Down, pezzo che cresce piano piano e si muove di nuovo su terreni gospel. To A Flame è una ballata lenta e suggestiva che ricorda un po’ certe cose di Tim Buckley, ma anche i Beatles; la canzone avanza sghemba, con la voce carezzevole di Stills e gli archi un po’ invadenti. Alla batteria troviamo Ringo Starr.
Il momento successivo è forse quello di maggior pathos, con Black Queen.
La canzone, celebre per la versione live con i CSN & Y, è qui nella versione originale. Si tratta di puro blues nero, che pare uscire da una palude della Louisiana. Stephen Stills fa vedere di cosa sia capace con la chitarra acustica, snocciolando un riff e delle frasi che doppia egregiamente con la voce.
Poco da dire e molto da ascoltare: cinque minuti e ventisei secondi di pura magia.
Cherokee è un altro piccolo capolavoro misconosciuto.
Un inizio sostenuto, con la chitarra di Stills che evoca il sitar e gli ottoni che punteggiano in modo abbagliante il ritmo. La strofa è punteggiata da interventi del flauto, a opera di Sydney George, che si occupa anche del sax. Un brano che poteva uscire solo da quel periodo irripetibile, molto bello ma invecchiato non benissimo.
La chiusura spetta a We are Not Helpless, ballata folk che già dal titolo sembra prendere in giro la celebre Helpless di Neil Young. Il folk delicato dell’ouverture cresce durante il brano, rendendo le atmosfere di nuovo affini a soul e gospel. Una coda solare e piena di speranza, per un album che sta miracolosamente in equilibrio tra i generi.
E allora perché Stephen Stills non alberga tra i più grandi dischi del rock, dopo cinquant’anni suonati? Difficile dirlo, visti i nomi coinvolti e la riuscita tutto sommato ottima. Certo, Stills non vanta lo stesso appeal di altre rockstar, sia per fascino personale che forse per la mancanza di eccessi scandalosi, ma è pur vero che il disco manca forse del vibrante colpo che manda al tappeto.
Stephen Stills è un album per certi versi perfetto, e di cui consigliamo caldamente l’ascolto. Ma a cui manca qualcosa – ed è un qualcosa di sfuggente – per ambire alla leggenda del rock.