“D’ora in poi saremo una democrazia. Quattro ragazzi, quattro voti”, proclama John Fogerty, vocalist e fino ad allora leader dei Creedence Clearwater Revival, nel documentario VH1: Behind The Music.
Era quello il leitmotiv dietro a Mardi Gras, destinato ad essere l’ultimo album dei Creedence Clearwater Revival: l’ultimo sobbalzo di una band che faceva di tutto per non andare in mille pezzi, ma che era ormai divorata dall’interno dalle sue disfunzioni.
Dopo l’abbandono di Tom Fogerty, fratello di John e secondo chitarrista, l’autorità di Fogerty come compositore e volto della band stava cominciando a traballare. Gli altri due membri della band, il batterista Doug Clifford e il bassista Stu Cook, richiedevano a Fogerty la possibilità di avere imput decisionale nella band e mettere in mostra le loro capacità scrivendo, cantando e componendo le loro canzoni. Se Mardi Gras diventa, dunque, la fine della storia dei Creedence Clearwater Revival, non è solamente a causa della musica incoerente:
Pubblicato l’11 aprile 1972 – a due anni di distanza da Pendulum, il predecessore, forse primo segno di una situazione instabile – Mardi Gras è una conversazione a tre in cui nessuno degli interpellati sta ascoltando quello che dicono gli altri due. Le canzoni al suo interno lo riflettono nella loro mancanza di coerenza collettiva: da una parte il talento e l’esperienza di John Fogerty, che apre il suo cuore in forma musicale e sfoggia la sua potente voce come ha sempre fatto, dall’altra gli altri due membri che cercano di capire cosa devono fare con lo spazio a disposizione.

Anziché l’orgoglio rurale e lavoratore che ha sempre caratterizzato il sentimento lirico dei Creedence Clearwater Revival, le tracce di Mardi Gras scritte da Cook e Clifford sono ricolme di meschinità, liti intestine e riferimenti piccati a John Fogerty (“ti piace essere il vincitore/raccogliere tutte le fiches in tempo per consegnarle”, canta, o meglio gracchia Cook in Take It Like A Friend). Abbastanza da distruggere tutta l’immagine di fierezza costruita dalla band in anni e anni di successi: si pensi che il titolo dell’album, che si riferisce a una celebre ricorrenza di New Orleans, rimarrà l’unico riferimento diretto in tutto l’album alla cultura della Louisiana e dei bayou. Doveva essere quello il primo sintomo del problema.
Le canzoni scritte da Doug Clifford sono pop leggero, al massimo passabile, più tollerabili in un debutto che nel lavoro di una delle band più acclamate della scena rock classica. Per arrivare al so bad it’s good bisogna invece scoprire i “capolavori” di Stu Cooke. A cominciare da Door To Door, una perplimente canzone narrata dal punto di vista di un commesso viaggiatore. Sail Away e Take It Like A Friend cercano invece di dare corpo drammatico alla disfunzione interna alla band, puntando rispettivamente alle metafore arrabbiate (l figura del “capitano” di marina che “sbraita ordini” all’equipaggio è una chiara metafora di Fogerty) e il sarcasmo condito da senso di superiorità. Ottengono invece, unicamente, una straniante mestizia: come se Cooke stesso dovesse ricordarsi di tenere duro in sessione finché la band non sarà sciolta una volta per tutte.
Persino John Fogerty se la cava solo alla buona. Sweet Hitch-Hiker (inserita inspiegabilmente come chiusura dell’album) si piega alle mode del tempo e cerca di trasformarlo in un bad boy capace di rimorchiare con una passante, ma non osa del tutto e si trattiene aggrappato a un tocco di ironia. Lookin’ For A Reason è anch’essa un racconto della disfunzione interna alla band mascherato da traccia di rottura (Fogerty stava attraversando un divorzio all’epoca). Potrebbe funzionare come B-Side in un vecchio disco della band, ma non regge il confronto con l’energia e la dignità dei vecchi classici. C’è anche una cover di Hello Mary Lou di Johnny Duncan, abbastanza inconsequenziale ai fini dell’album ma innocua abbastanza da poter piacere a qualche appassionato dei CCR o del rock classico.
Mardi Gras dei Creedence Clearwater Revival è dunque, più che un bell’album rock, uno spaccato di storia su cosa può accadere a una band quando cerca disperatamente di tenersi insieme. Oppure, in maniera più utilitarista, una cautionary tale sul lato negativo della necessità dei compromessi: ottenere qualcosa che non piace a nessuno, nemmeno ai vecchi e nuovi fan. Forse solo per quello, una macchia altrimenti dimenticabile nell’eredità di un grande gruppo che va tenuta in piedi nella memoria.