In primo pianoMusica

Who’s Next, il capolavoro che salva gli Who dallo scioglimento

Who's Next, la band nel '71

All’inizio degli anni Settanta gli Who sono una delle band più popolari in tutto il pianeta. Nel mese di agosto del 1971 esce Who’s Next, album nato dalle ceneri di Lifehouse, opera rock abortita di Pete Townshend.

Quando esce Who’s Next, gli Who hanno già scioccato il mondo della musica, e non solo, a più riprese; i primi dischi, quando i ragazzi sono portavoce del movimento Mod, sono portatori di un forte sentimento antagonista al mondo degli adulti. “I hope I die before I get old” è la frase che sciocca i benpensanti, allerta la censura ed entusiasma i giovani fan, alla ricerca di una disperata rottura col mondo degli adulti.

La frase è tratta da My Generation, primo successo che presto entra nella leggenda. Il periodo è quello della metà degli anni Sessanta, ovvero il primo nella storia in cui le generazioni più giovani rivendino una serie di diritti. Fino ad allora, infatti, il mondo adulto è sempre stato l’unico tenuto in considerazione dalla società, dalla politica al marketing. Oggi difficilmente ci se ne ricorda, ma sono proprio le battaglie di quel periodo ad averci consegnato il mondo che viviamo, con le sue contraddizioni ma anche con una diversa idea dei diritti individuali.

Esaurita la fase di ribellione, a base di chitarre distrutte e di grandi trovate che diverranno cliché, gli Who esplorano la rock opera. Questo avviene soprattutto grazie a Pete Townshend, chitarrista forse non eccezionale come solista, ma dotato di grande creatività e di idee rivoluzionarie. Tommy forse non è strettamente la prima rock opera, di sicuro è quella che dà la giusta dignità al formato.

La band, a quel punto, è in stato di grazia. Pete incarna il musicista intellettuale, Roger Daltrey è il frontman carismatico, bello e dannato al punto da poter rivaleggiare con Robert Plant o Ian Gillan; John Entwistle è un bassista fenomenale e Keith Moon è il batterista di culto, tanto geniale dietro le pelli quanto fuori controllo nella vita di tutti i giorni. La prova dello stato di forma arriva nel 1970 con Live at Leeds, che ancora oggi si contende la palma di migliore live con Made in Japan dei Deep Purple e pochi altri.

A quel punto, Pete Townshend – ormai stanco della banale forma canzone – vorrebbe replicare il successo di Tommy con la rock opera Lifehouse. Il progetto, però, non va in porto e il chitarrista decide di utilizzare comunque le tracce già scritte per dare vita a un album tradizionale.

Nel 1971, però, all’interno degli Who non è che tutto sia rose e fiori. Il manager e produttore Kit Lambert è preda delle droghe pesanti, tanto che il suo apporto è minimo, mentre Townshend eccede con i super alcolici. Il fallimento del progetto Lifehouse getta il chitarrista sull’orlo dell’esaurimento nervoso; non solo, una serie di concerti allo Young Vic di Londra portano la band vicina allo scioglimento.

Townshend è stanco: vorrebbe creare e proporre materiale nuovo, ma il pubblico pare interessato solo a sentire per l’ennesima volta My Generation, a guardare Roger fare i suoi giochetti col microfono e Pete sfasciare chitarre. Alla fine, Who’s Next e la scelta di conservare parte del materiale e delle scelte strumentali ideate per Lifehouse, scuote il complesso dalla pericolosa china intrapresa.

Il disco viene registrato tra il marzo e il maggio del 1971 e la produzione saggiamente affidata a Glyn Johns. Le prime registrazioni vengono effettuate col Mobile Studio dei Rolling Stones, in quel momento ubicato a casa di Mick Jagger; le altre si svolgono in vari studi e vedono la partecipazione di grandi musicisti. Nicky Hopkins suona il piano in The Song Is Over e Getting in Tune, Dave Arbus il violino nella mitica Baba O’Riley.

Ci sono anche Al Kooper e il grande chitarrista Leslie West, ma il loro contributo rimarrà piuttosto sfumato. Per la prima volta Townshend utilizza un sintetizzatore ARP che dà ai suoni una nuova profondità; la produzione di Johns, inoltre, è molto più minimale del solito e impone al bizzoso Moon uno stile più preciso e formale alla batteria.

L’iconica copertina di Who’s Next ritrae i quattro musicisti al cospetto di una sorta di monolite di cemento, in un paesaggio lunare. Il richiamo a 2001: Odissea nello Spazio, capolavoro di Stanley Kubrick per cui la band fu tra le papabili per la colonna sonora, è palese. E dissacrante; infatti, i quattro sono ritratti come se avessero appena urinato contro il misterioso manufatto.

Mettiamo Who’s Next sul vinile, a questo punto. Subito veniamo precipitati in un’atmosfera leggendaria, basta infatti che parta l’ipnotico giro di sintetizzatore che caratterizza Baba O’Riley. La canzone è dedicata al guru indiano Meher Baba, ma anche a Terry Riley, profeta della musica minimalista. E sono proprio ispirati al minimalismo i cerchi concentrici del sintetizzatore di Townshend che, come in una vertigine vorticosa, attirano dentro l’ascoltatore.

Un imperioso stacco di batteria di Moon apre il tema classico della canzone, prima dell’entrata in scena di Roger Daltrey. Il cantato del riccioluto Roger è sempre più sicuro, con una furia rock da stadio che ha ispirato tra gli altri Bruce Springsteen. Il pezzo, ça va sans dire, è uno dei più riusciti del repertorio Who, compreso il bellissimo finale psichedelico col magico violino di Dave Arbus.

La seguente e bella Bargain inizia con un ingannevole tono dimesso da ballata; in realtà, quasi subito esplode il fragore di un riff da hard rock, una sorta di evoluzione del suono Mod degli esordi in chiave anni Settanta. Puntuale il lavoro della sezione ritmica Entwistle-Moon, una delle migliori della storia del rock, ed eccezionale la prestazione di Daltrey. Interessante il lavoro di Townshend, sia ai sintetizzatori che alle chitarre.

Oltre a sbracciare a tutto spiano a livello ritmico, il buon Pete snocciola anche qualche bella frase solista. Si va avanti con Love Ain’t For Keeping, brano semiacustico che strizza l’occhio al country e a certe ballate degli Stones. Townshend mostra di saperci fare con l’acustica, mentre l’incessante ricamo del basso e la sontuosa batteria di Moon conferiscono comunque la tipica potenza al muro di suono degli Who.

Il primo lato del vinile è chiuso da My Wife, unica composizione di John Entwistle. Si tratta di un pezzo rock dal tiro sostenuto e piuttosto semplice, tra classico rock’n’roll e atmosfere a tratti beatlesiane. Non si può dire che il brano sia il più riuscito della raccolta, comunque scorre piacevolmente.

Si volta il disco e subito si cambia atmosfera con The Song Is Over, ballata aperta dal sognante piano di Nicky Hopkins e condotta stavolta dalla voce di Pete Townshend. L’ingresso della sezione ritmica, come sempre, dà una sferzata di energia e cambia ritmo al pezzo. Pete non è mai stato celebre – giustamente – per il suo tocco solistico, eppure, anche qui snocciola con sicurezza delle belle frasi chitarristiche, oltre a darsi da fare anche al sintetizzatore.

Tra accelerazioni e ritorni al tema iniziale, si va verso il pirotecnico finale. Sempre il piano apre Getting in Tune, con un Daltrey particolarmente ispirato e molto attinente a certe atmosfere di Tommy. Il brano offre delle inedite atmosfere tra il soul e il blues, con una chitarra particolarmente ficcante e un finale quasi da jam session di southern rock.

Going Mobile è di nuovo cantata da Pete Townshend e si muove tra pulsioni country e momenti più lenti dalle atmosfere più british. Nella parte centrale c’è un assolo di chitarra molto distorta dal wah-wah, piuttosto simile a certe cose del Clapton del periodo, musicista di cui Townshend è grande amico.

Un brano non troppo celebre del canzoniere degli Who, ma da riscoprire. Who’s Next va avanti con uno dei pezzi da novanta del disco, una delle ballate più belle mai scritte nel rock: Behind Blue Eyes. Molti, tra i più giovani, conoscono questo pezzo per la bella cover del 2003 dei Limp Bizkit, ma l’originale ha tutto un altro peso.

La versione degli Who è ovviamente superiore, con un arpeggio leggendario che fa da sfondo alla voce di Roger Daltrey. Il cantante dimostra qui, se ce ne fosse bisogno, di essere un fuoriclasse anche senza pestare il piede sull’acceleratore. Le armonie vocali, non certo diffusissime nei pezzi del complesso, sono qui degne di Beatles e Beach Boys, aggiungendo suggestione a un pezzo praticamente perfetto.

La parte centrale svisa trascinando il pezzo dalle parti di un country rock viscerale, con la voce di Roger che si fa più roca e la chitarra elettrica di Townshend che sottolinea il cambio di ritmo. Il finale riprende il tema iniziale, accompagnando in porto un brano davvero leggendario.

C’è ancora spazio per la lunghissima, oltre otto minuti, Won’t get fooled again. Come nell’iniziale Baba O’Riley, quasi a chiudere un percorso circolare, l’intro è affidata a un’ipnotica parte di sintetizzatore, anticipata da una robusta pennata di chitarra elettrica. Il pezzo si muove nelle coordinate più classiche del rock duro alla Who. Moon pesta in modo tribale sui tamburi, Daltrey sfoggia tutto il suo fascino vocale ed Entwistle disegna complicati ghirigori di basso.

Pete Townshend fa la sua parte, tra le sue classiche pennate, parti soliste efficaci e mai invadenti e riff granitici sciorinati senza complimenti. Won’t get fooled again sta agli Who come una Brown Sugar, o una Jumpin’ Jack Flash, sta agli Stones. Un classico, insomma.

Si chiude così Who’s Next, un album che da subito finisce di diritto tra le leggende del rock del periodo aureo, tra la fine dei Sessanta e l’alba dei Settanta. Who’s Next, poi, a differenza di altri grandi classici, non è per niente invecchiato e suona benissimo ancora oggi.
A testimonianza, per dirla con Italo Calvino, che un classico – se lo è davvero – ha sempre qualcosa di nuovo da dire.

— Onda Musicale

Tags: Pete Townshend, Roger Daltrey, Keith Moon
Sponsorizzato
Leggi anche
Roger Waters: “Se non vi piacciono le mie idee politiche potete andare affanculo al bar”
Davide Fare: “Un’Estate io e te”, brano pop dal sapore estivo per l’artista veneto