Ispirato al britannico Reading Festival, il Lollapalooza è un festival musicale itinerante annuale che nasce a Chicago e si sposta in Cile, Brasile, Argentina, Germania, Svezia e Francia. Rimandato per due anni, il festival a Parigi si è finalmente svolto lo scorso week-end, sabato 16 e domenica 17 luglio.
Erano svariati gli ospiti internazionali invitati a rappresentare la musica rap, pop e rock: Pearl Jam, Imagine Dragons, Måneskin, Phoebe Bridgers, David Guetta, A$AP Rocky, The Struts, Turnstile e tanti altri.
Situato all’Hippodrome de Longchamp, il festival conta quattro palchi su cui si alternano gli artisti a orari diversi o persino accavallandosi, perché alcuni stages hanno posizioni strategiche. Ascoltando la musica si possono visitare gli stand del merchandising ufficiale, cibo, bibite, e una piccola Tour Eiffel è lo sfondo perfetto per le foto ricordo di questo evento.
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Andando in ordine cronologico, ho avuto la fortuna di assistere allo show dei Turnstile, band statunitense nata nel 2010 di cui non avevo mai sentito parlare. Dal poco che ho potuto ascoltare, il loro sound hardcore infuoca le folle ed è proprio ciò che serviva domenica per inaugurare la scena rock del festival.
Spostandomi verso il palco dove avrebbero suonato i Pearl Jam, ho assistito alla performance di Phoebe Bridgers
Le influenze pop, folk e indie si uniscono a un fraseggio inaspettato, mai banale. Mi ha ricordato lontanamente lo stile di una giovane Sara Bareilles, ma soltanto il suo modo di scrivere e fraseggiare. Ho trovato il sound piuttosto aleatorio, non sempre classificabile, che però rientra perfettamente nella categoria che mi piace definire triste-catartica. Non sono riuscita a farmi un’idea concreta al primo ascolto, ma studiando meglio la canzone che mi ha più colpito, I Know the End, ho capito che è semplicemente un’artista più complessa di quanto sembri. Il fatto che in molte canzoni si avvalga di violini e trombe non fa che renderla più interessante.
Gli ospiti successivi sono stati i Måneskin
Ormai famosissimi, non hanno bisogno di presentazioni. Da fellow roman, ammetto che fosse la mia prima volta a un loro show. Quando vinsero X-Factor provai ad ascoltarli e non mi trasmisero granché, la scorsa domenica ne ho avuto la conferma. I ragazzi romani sanno intrattenere il pubblico, ma spesso Damiano, il frontman, era piuttosto calante. Inoltre non ho trovato interessanti i loro testi – ripetitivi e a volte volgari.
La sezione ritmica teneva unicamente grazie a Ethan Torchio, il batterista, questo è un aspetto che ho apprezzato
Però c’è qualcos’altro che non mi è piaciuto, ovvero l’arroganza che – nonostante la giovane età – ha sfoggiato la band: in I Wanna Be Your Slave, si sente il cantante incitare la folla a inchinarsi fino al suo segnale perché «anche Angelina Jolie l’ha fatto». Senza contare la frase «buona fortuna all’ultima band», che ho percepito irrispettosa nei confronti delle leggende che avrebbero suonato dopo di loro, i Pearl Jam.
In conclusione
Dalla loro performance ho capito che non è la musica che conta nei loro show, ma lo spettacolo, ed è per questo che non fanno per me. Sul finale hanno chiamato sul palco una trentina di ragazzi che si è scatenata insieme a loro toccandoli e venerandoli come degli dei. Niente in contrario, quello che mi auguro però è che facciano almeno avvicinare i giovani alla musica rock – quella vera – dato che già usano riff altrui (l’intro di Supermodel somiglia pericolosamente a Smells Like Teen Spirit).
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Finalmente arriva il momento delle vere star del festival – l’ironia di questa affermazione ve la spiego dopo
I Pearl Jam entrano in scena con Why Go, tra l’acclamazione della folla che raggiunge tre zeri; continuano poi con Mind Your Manners e Corduroy fino ad approdare a Even Flow. È ancora una delle canzoni che li ha resi più noti e non invecchia mai, come la band stessa, che continua a saltare mentre il ritmo si velocizza (la versione live è sempre più veloce dell’originale) e Mike McCready si esibisce in 3 minuti memorabili di assolo.
Continuano con Dance of the Clairvoyants e Who Ever Said, brani dell’ultimo album. Gigaton è stato accolto dalla critica come un progetto nato per essere diverso dai precedenti, ed è vero. La sperimentazione c’è e si sente soprattutto in D.O.C., con i riff funk e la ritmica spezzata della batteria. C’è tanta critica al presente che stiamo vivendo: Eddie Vedder lo rende piuttosto chiaro successivamente, parlando della situazione governativa americana e russa.
Si procede con Whishlist, Not For You, Given to Fly, MFC, Amongst the Waves e finalmente si arriva ai grandi successi: Jeremy, Black, Go, Porch. È questo il momento che tutti aspettavamo. Eddie ne approfitta per riprendere fiato, e in un paio di occasioni lascia che la folla intoni quei ritornelli che hanno fatto la storia del grunge. I musicisti interagiscono con il pubblico, lanciano plettri, tamburelli, parlano con qualcuno, ritirano regali e li stendono in bella vista sul palco.
Arriva il momento di uscire di scena per cinque minuti di pausa, lasciando la folla a evocare “Pearl Jam!” quasi fosse un incantesimo. Ed ecco che tornano sul palco per suonare Alive e Baba O’Riley, cover degli Who – band che Eddie Vedder idolatra fin dall’adolescenza. Un finale coi fiocchi: lo schermo dietro la band si riempie dei volti del pubblico, persone gioiose con le braccia alzate che stringono bandiere di diversi paesi, la prova che la musica unisce e arricchisce.
Non è mancata la circostanza che si verifica spesso ai loro concerti, e che ho visto solo in un’altra occasione, durante una performance dei Counterfeit: i Pearl Jam hanno fermato un’esibizione per aiutare un ragazzo in difficoltà nella folla. Solo dopo essersi accertati che stesse bene hanno ripreso il brano da dove l’avevano interrotto. Mi aspettavo che sarebbe accaduto: nel 2000 al Roskilde Festival, in Danimarca, nove persone morirono soffocate dalla folla proprio durante il loro concerto. La polizia danese ritenne la band responsabile, nonostante Eddie Vedder avesse interrotto l’esibizione e chiesto anche in quel caso di fare un passo indietro.
I Pearl Jam sono fatti così, prima gli altri e poi loro, prima i soprusi nel mondo e la politica disastrosa, prima la riflessione sul fatto che tutti noi, domenica, eravamo fortunati a condividere quel momento, perché il mondo fa schifo, è vero, ma possiamo ancora condividere qualcosa di bello. È questo che, più di tutto, mi piace dei Pearl Jam. Hanno sempre usato la musica come mezzo per comprendere il mondo, loro stessi, per aiutare le minoranze, dire la loro sulle ingiustizie (LINK). Sono le persone buone che mi fregano, quelle che non puntano sull’apparenza ma che cercano la verità. Le persone che ascoltano, che fanno domande, che non arrivano mai ma camminano sempre.
Questi sono gli artisti che mi piace seguire, non quelli che si mettono in mostra senza dire niente, non quelli che offrono solo immagini affascinanti, che si battono per cause condivise dall’opinione pubblica, che parlano di qualcosa solo perché sponsorizzati dalle aziende o perché è l’ultimo trend su Twitter. Non mi serve altra disonestà, altro vuoto. Sono circondata da abbastanza fumo, è già difficile vedere al di là. E se quel fumo dovesse diventare un muro non potrei più camminare, sarei bloccata. Non solo non arriverei più, non mi muoverei neanche. Allora sarebbe una vita anestetizzata, insensata, povera.