Tarkus è il secondo album degli Emerson, Lake & Palmer, storica band britannica. Il lavoro fu registrato in soli sei giorni ed è – letteralmente – un album a due volti.
Quando esce Tarkus, nel giugno del 1971, il disco d’esordio di Emerson, Lake & Palmer è uscito da appena otto mesi. Se pensiamo che Tarkus viene registrato a gennaio, il conto è facile: quando i tre virtuosi entrano in studio, il primo lavoro è fuori da appena due mesi. Oggi sembrerebbe una follia, all’epoca è una prassi normale battere il ferro finché è caldo.
Ma come nasce il trio delle meraviglie, per lungo tempo croce e delizia degli appassionati di rock progressivo? Alla fine degli anni Sessanta, Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer sono giovanissimi ma, allo stesso tempo, già grandi nomi della scena prog. Una scena che sta nascendo: è del 1969 il primo lavoro dei King Crimson, quello che segna la vera nascita del prog.
E proprio Greg Lake che canta e suona in In the court of Crimson King, il seminale disco della band di Robert Fripp. Greg è dotatissimo come vocalist. La sua voce profonda e carezzevole, adatta sia al rock più duro che ai passaggi melodici, è talmente inimitabile che in tanti ci proveranno. Come chitarrista è meno virtuoso, tanto che nei King Crimson deve farsi da parte di fronte a Fripp e ripiegare sul basso.
Keith Emerson è un tastierista dello Yorkshire, il cui immenso talento è secondo forse solo all’altrettanto sviluppato ego. Keith è un istrione, suona classica, jazz e rock senza alcuno sforzo e usa le tastiere come Hendrix usa la chitarra. Con l’Hammond riproduce qualsiasi suono, tanto che una volta seda una rissa esplosa tra il pubblico riproducendo coi tasti il suono di una mitragliatrice.
Col gruppo dei Nice, Keith si mette in luce per la commistione tra rock e musica classica, di cui è grande appassionato. Mischiando Bach, jazz e psichedelia, il progetto The Nice raggiunge il successo. Emerson sul palco è inimitabile: tortura le tastiere, ci sale sopra, ci si sdraia sotto e le trascina sulle assi; la misura, però, non è certo il suo pregio maggiore.
Proprio Keith, all’insaputa della band, sta tramando per fare un passo ulteriore in senso progressivo. Per farlo, però, occorre trovare musicisti più fantasiosi e validi dei pur bravi compagni dei Nice. Inizialmente, Emerson punta Chris Squire degli Yes e Jack Bruce, reduce dai Cream. È il manager Tony Stratton-Smith, durante un tour in America al Fillmore West di San Francisco, a fargli conoscere Greg Lake.
I King Crimson stanno per concludere una serie di concerti, ma sono già dimezzati dall’annunciato ritiro di Ian McDonald e Mike Giles. Anche tra Fripp e Lake c’è maretta, incredibilmente per discussioni intorno al moniker del gruppo. Tra Emerson e Greg scatta subito la scintilla giusta: ora c’è da trovare un batterista e forse un chitarrista.
I primi contatti sono con Mitch Mitchell, batterista nella Experience di Jimi Hendrix e richiamato nella Band of Gypsys per un album che non uscirà mai. La vicinanza di Mitchell con Jimi fa nascere aspettative e una leggenda dura a morire, nonostante le smentite. I giornalisti, infatti, fantasticheranno a lungo su quella che sarebbe stata la HELP e su una fantomatica jam session del chitarrista con gli ELP.
In realtà, Mitchell brucia la sua chance quando si presenta col road manager a casa di Greg Lake. Durante la conversazione, senza apparente motivo, il collaboratore di Mitch appoggia sul tavolino una pistola, scatenando il disappunto dei presenti. A quel punto, pare sempre per intercessione di Stratton-Smith, Emerson e Lake conoscono Carl Palmer. Il batterista ha suonato – tra gli altri – con i Crazy World of Arthur Brown e con gli Atomic Rooster.
Abituato alla follia sul palco di Brown e a quella, purtroppo patologica, del grande Vincent Crane, a Palmer Emerson e Lake devono essere sembrate le persone più normali mai viste. Il problema è che gli Atomic Rooster hanno avuto buon successo col primo album e Carl, appena ventenne, vacilla all’idea di lasciarli. Quando i tre provano a suonare assieme, però, la miscela è talmente esplosiva che il batterista si convince.
Gli ELP – un po’ com’era capitato anni prima coi Cream – scatenano la curiosità di appassionati e addetti ai lavori. Dopo un concerto di prova a Plymouth, gli ELP debuttano in pompa magna al Festival dell’isola di Wight. Al primo vero assaggio, i tre suonano di fronte a 600mila persone. Non hanno ancora un contratto discografico e sono già il fenomeno del momento.
Siamo nell’agosto del 1970, e da allora gli eventi prendono un’accelerazione imprevista. Gli ELP firmano con la Island ed escono subito col primo album, eponimo. Il successo è grande, la qualità anche. Gli eccessi di Emerson sono temperati dal fatto di essere all’esordio; gli accenti classici, pur mantenendosi sulla superficie, senza un vero connubio tra rock e classica ma più una contaminazione, sono ancora lontani dal kitsch.
Il ferro, come si diceva, va battuto finché è caldo, e poco dopo gli ELP sono già in studio per il seguito. Come usa all’epoca, i tre pensano a una sorta di concept album attorno alle avventure fantabelliche del misterioso Tarkus. La guerra, però, non si limiterà solo ai solchi del vinile: inizia subito lo scontro tra l’ego di Emerson e quello meno vistoso, ma sviluppato, di Lake.
Greg, infatti, ritiene le partiture portate in studio da Emerson troppo complesse. Forse ha anche ragione, ma gli eventi congiurano contro le sue proteste. Innanzitutto, Lake non ha alternative da proporre; Palmer, poi, si schiera a favore del tastierista. Cosa più importante, però, gli studi sono già stati prenotati e vanno pagati: la Island non è disposta a perdere i propri denari per le bizze dei due giovani galli.
A quel punto Lake cede e la sua resa fa sì che la guida del supergruppo rimarrà in mano più o meno saldamente a Emerson almeno fino al 1974. Gli Advison Studios vedono la presenza degli ELP per appena sei giorni, sufficienti a dare vita a un capolavoro a metà. La prima parte, infatti, è occupata da una suite di oltre venti minuti, Tarkus, per l’appunto. La seconda facciata è registrata invece con poche idee e scarsa organicità. Tarkus, dunque, è un capolavoro monco: la suite è tra le più belle del prog e forse la cosa migliore degli ELP. Il resto sa un po’ di riempitivo.
Ma chi è Tarkus?
La bizzarra creatura ritratta in copertina è opera di William Neal. Il dipinto raffigura una sorta di enorme armadillo con cingoli al posto delle zampe e un enorme cannone. La scritta Tarkus è composta da ossa. Lo stesso Neal racconta la storia di Tarkus e chiarisce perché la vicenda non abbia riferimenti diretti nei bei testi della suite. La trama è fantasy e apocalittica: nato da un uovo schiuso da un’eruzione, Tarkus combatte sconfigge altre creature simili a lui. I suoi avversari sono infatti una locusta armata di missili e uno pterodattilo con mitragliatrici sulle ali.
Quando Tarkus incontra sulla sua strada una manticora, mitologico leone con testa d’uomo e coda di scorpione, viene sconfitto e si ritira in mare. Il nome Tarkus è un’invenzione di Keith Emerson, crasi tra Tartarus, l’inferno in molte religioni pagane, e carcass. La manticora, invece, rimane impressa agli ELP, che chiameranno Manticore la loro etichetta, che pubblicherà anche PFM e Banco.
La suite, però, ripercorre la storia solo in tre parti, oltretutto strumentali. Le liriche, invece, si limitano a tracciare scenari di guerra con condivisibile piglio pessimista e antimilitarista. Tarkus, allora, si scopre per quel che è, metafora dell’uomo sempre pronto ad affrontare nuove e insensate guerre.
Musicalmente, la suite Tarkus è meravigliosa.
L’attacco (Eruption) è una frenetica cavalcata in puro stile prog, con le tastiere di Emerson a dominare; Stones of Years rallenta il ritmo e permette l’ingresso della voce di Lake, punteggiata dall’organo. La melodia è bellissima, l’ugola di Greg puro velluto. Siamo dalle parti dei passaggi più ispirati e melodici dei primi King Crimson, alla Epitaph, per capirci.
Il breve intermezzo di Iconoclast traghetta la suite verso Mass, la parte più sostenuta e rock. La voce di Lake, sempre a suo agio, è filtrata elettronicamente e doppiata dai synth di Emerson e dalla ritmica di Palmer, che non perde un colpo. Tarkus diventa un saliscendi di emozioni prog, con Lake che imbraccia la chitarra elettrica dimostrando anche qui buone capacità.
Manticore è puro prog, con una ritmica frenetica e il lavoro alle tastiere che rendono bene la suggestione del combattimento. Il movimento denominato Battlefield segna il ritorno alla melodia iniziale; il ritmo rallenta ancora e la batteria di Palmer fa da tappeto per una parte di chitarra di Lake molto ispirata, che ricorda certi passaggi epici dei Genesis.
C’è spazio ancora per Aquatarkus, la parte finale che assume l’andamento di una marcia e porta a conclusione la suite in un trionfale tripudio prog.
Si conclude così una delle pagine migliori dell’intero repertorio degli ELP. Si gira la facciata e iniziano – come diceva il Sommo – le dolenti note. Jeremy Bender, brano dal contenuto che oggi sarebbe probabilmente – e giustamente – preso di mira, è una sorta di traditional. Emerson sfoggia il piano honky tonk, sua bizzarra passione, e l’andamento è quello di un rilassato country.
Nemmeno due minuti e un organo da chiesa dà l’avvio a The Only Way (Hymn)/Infinite Space (Conclusion),breve suite in due movimenti. La musica cita due movimenti di Bach, senza indulgere troppo nei barocchismi che affosseranno il trio. Greg Lake si supera alla voce, sempre a suo agio nei passaggi più melodici. Il testo parla di ateismo, motivandolo col silenzio di Dio di fronte alla Shoah. Nella seconda parte la musica vira al jazz, sempre con ammirevole misura. Sicuramente il passaggio migliore della seconda facciata.
A time and a place è invece un passaggio più sostenuto, ai limiti di un certo hard rock che ricorda più i Cream che i Led Zeppelin. Lake passa la carta vetrata sulle sue corde vocali, senza perdere qualità, mentre Emerson gigioneggia ai tasti bianchi e neri. Un brano godibile ma forse poco organico nel lavoro.
Peggio ancora, in questo senso, fa Are you ready Eddie?, scatenato rock’n’roll inciso in omaggio a Eddie Offord, ingegnere del suono. La band si dimostra perfettamente a suo agio anche in questo genere, con una credibilissima performance degna di Little Richard. Curiosi anche i cori, caso unico, di Emerson e Palmer. Il pezzo è godibilissimo, il problema è che forse un brano rock’n’roll stona un po’ in un concept album progressivo.
Insomma, Tarkus all’epoca vende benissimo, ma fa già presagire qualche crepa nella macchina da guerra ELP. Lo smisurato ego, soprattutto di Keith Emerson, presto fa sì che la band si trasformi in una sorta di spettacolare baraccone kitsch; le prestazioni sul palco sono sempre più infuocate, complesse e sfavillanti. Più il pubblico apprezza e più gli ELP arricchiscono una formula che, se si fosse agito per sottrazione, sarebbe stata perfetta.
E invece, gli ELP implodono sotto il peso stesso della loro bravura.
Ancora qualche buon disco, con commistioni tra classica e rock sempre più pericolose, poi l’ispirazione lascia il passo a una stanca routine da neomiliardari. Il tramonto del prog fa il resto; quando, nel 1978 gli ELP registrano – per forza – Love Beach il risultato fa quasi dimenticare la grandezza passata.
In Concert, il live d’addio del 1979, fa quasi peggio, facendo apparire gli ELP come goffi dinosauri nell’epoca del punk e della New Wave. Tarkus, allora, coi suoi tanti pregi e pochi difetti, ha il merito di restituirci tre grandi musicisti al massimo della loro forma.