Il brano è in uscita venerdì 14 ottobre per The Prisoner Records in distribuzione The Orchard.
Dopo il ritorno ad aprile con Stanco – la band mancava da 8 anni con un lavoro in studio – il brano “Uno zio Frank” sancisce il ritorno ufficiale della band genovese dei Numero 6.
“Uno zio Frank” vede Michele Bitossi insieme ad Ale Bavo nella scrittura e sempre Michele nella produzione insieme a Tristan Martinelli. Il mix è affidato a Ivan Antonio Rossi. Il brano incarna perfettamente lo stile della band genovese, con chitarre jangly che rimandano alle sonorità in stile Rem, melodie aperte e cristalline. Volutamente “fuori dal tempo”, volutamente lontano da ogni tendenza musicale attuale. Abbiamo parlato con loro, ecco com’è andata!
Cosa vi ha portato a tornare in studio, dopo oltre otto anni di assenza? E che cosa vi è successo in questi otto anni?
Non ci siamo mai persi veramente di vista pur avendo tutti intrapreso percorsi diversi. Ognuno di noi ha la sua vita e i suoi tanti impegni, sia musicali che non.
Una sera di qualche mese fa abbiamo cenato assieme e, quasi per scherzo, è uscita l’idea provocatoria di provare a rimettere in piedi la band. Senza aspettative, per il puro gusto di vedere cosa sarebbe successo. Siamo andati in studio e sono uscite quasi subito tre canzoni nuove in maniera molto fluida. Vista la situazione piuttosto incoraggiante abbiamo deciso di ricominciare a pubblicare del materiale. Per adesso siamo a due singoli, poi vedremo che succederà.
I fan che vi avevano lasciato otto anni fa, sono tornati con voi?
Francamente spero di sì ma non ho un’idea precisa in merito a ciò, ne’ francamente è un problema che mi pongo. Quello che mi piacerebbe, invece, è che ragazzi giovani si interessassero a quello che facciamo (e che abbiamo fatto) così come alla musica di band della nostra generazione.
Dite di essere volutamente “fuori dal tempo”. Ma che cosa sta succedendo nella scena musicale contemporanea da cui vi scostate volutamente?
Quando diciamo si sentirci “fuori dal tempo” ci riferiamo sostanzialmente a un approccio nel fare musica, il nostro, che ormai risulta essere piuttosto obsoleto. Parlo fondamentalmente del fatto di prendersi tutto il tempo necessario per scrivere, arrangiare, produrre, senza particolare fretta o ansia di “esserci”.
Ma c’è fortunatamente ancora una schiera di artisti che vive la propria arte in questa maniera, molti della nostra stessa generazione, che stanno facendo uscire album davvero molto belli e significativi.
Quello che vedo tuttavia è per lo più sorta di fantomatica “corsa all’oro”, una sovrapproduzione musicale aberrante e demenziale con conseguente qualità a livelli bassissimi.
The Prisoner Records vi vede sia come discografici che come artisti? Non è difficile essere anche manager di sé stessi? Come funziona nel vostro caso?
The Prisoner è nata qualche anno fa con l’obiettivo di provare a essere un valore aggiunto su progetti che mi stimolano artisticamente, fatti da persone che mi stimolano umanamente. Quando si è trattato di dover pubblicare nuovo materiale dei Numero6 ci è venuto abbastanza naturale farlo con la mia etichetta. Di fatto, comunque, collaboriamo con una serie di partner (promozione, distribuzione).
Il nipotino Matteo alla fine ha ascoltato “Uno zio Frank”? Che ne dice?
Sì, l’ha ascoltata. Ringrazia ma dice di preferire i Maneskin.