Alla fine del 1967 nei Rolling Stones regna la più completa confusione. Dal disastroso periodo psichedelico nasce però la volontà di trovare una forte identità, un processo che porta a Beggars Banquet, primo di una serie di capolavori.
Beggars Banquet è infatti il primo risultato della collaborazione con Jimmy Miller, fortemente voluta da Mick Jagger. Siamo all’inizio del 1968, un periodo di fermento e rivoluzione per la storia, quella con la S maiuscola, ma anche per Jagger e soci. Their Satanic Majestic Request, l’album del 1967, è stato un flop piuttosto fragoroso.
Nato per sancire l’adesione degli Stones al movimento psichedelico, viene subito etichettato come maldestra copia del Sgt. Pepper dei Beatles. Se da una parte il lavoro della band di Liverpool entra nella storia come uno dei massimi esiti della psichedelia, non accade lo stesso per il tentativo degli Stones. All’interno della band regna infatti l’anarchia.
Brian Jones, estroso creatore degli Stones, è l’ombra di se stesso. Tra droga ed eccessi, Brian ha smarrito l’ispirazione e la concretezza; non sa quale strumento vuole suonare, vorrebbe comporre ma non riesce, è attirato dal cinema.
Eravamo piuttosto contenti che Brian non fosse presente alle sessioni per Beggars Banquet, perché quando non c’era potevamo andare avanti con il lavoro. A quel punto aveva deciso di non far più parte del gruppo. Aveva ben altre idee per la testa: scriverò, farò il produttore, farò film diceva. Viveva nel Paese delle Meraviglie.”
Keith Richards
Le parole di Keith Richards possono sembrare dure, ma probabilmente rispecchiano la realtà. L’avventura psichedelica, poi, è solo di facciata, così come gli abboccamenti pop dei precedenti lavori. La verità è che i Rolling Stones vogliono raggiungere il successo, andare in televisione e scatenare l’isteria. Come accade ai Beatles, amici e rivali, e come riuscivano a fare agli esordi, quando c’era molto più spazio per tutti.
Paradossalmente, l’agognata fama avverrà proprio con il ritorno alle radici.
Gli Stones, infatti, riprendono in mano gli stilemi blues dei loro esordi. Stavolta, però, non sono degli adolescenti pieni di birra e buona volontà che si limitano a riprodurre i suoni americani; stavolta, i Rolling Stones filtrano le radici d’oltreoceano con la propria sensibilità.
Jagger e soci abbracciano gli ideali della ribellione giovanile, del ’68 e della contestazione. Mick Jagger finisce addirittura in strada a protestare contro la guerra in Vietnam, non si capisce bene a che titolo. Quanto queste nuove istanze prendano davvero i ragazzi e quanto lo facciano per calcolo, non lo sappiamo. Il risultato è però esplosivo: i Rolling Stones tornano a prendersi lo scettro di brutti, sporchi e cattivi del rock.
È ancora Richards a tracciare sinteticamente il cambio di stile: “C’è un netto cambiamento fra il materiale di Their Satanic Majesties Request e Beggars Banquet. Mi ero stancato di quella merda del Maharishi, delle perline e dei campanelli.”
Ed è proprio a casa di Keith, nel Sussex, che a febbraio del ’68 i ragazzi buttano giù le prime idee per Beggars Banquet. A marzo iniziano le registrazioni vere e proprie, agli Olympic Studios di Londra. Il materiale viene registrato a più riprese e l’album pubblicato a dicembre. A maggio, però, una ghiotta anticipazione fa presagire il cambio di rotta dei Rolling Stones; esce infatti come singolo Jumpin’ Jack Flash, iconico pezzo che non finirà mai su un album.
Per il lancio dell’album le idee sono grandiose, fin troppo quelle di Mick Jagger che vorrebbe addirittura invitare i giornalisti nella Torre di Londra. Alla fine, si ripiega sullo storico Gore Hotel di Kensington, dove i Rolling Stones accolgono gli invitati in stranianti costumi medievali. La sera scelta è quella del 5 dicembre, il giorno prima del lancio ufficiale, e la festa si conclude con un altro tipo di lancio.
Jagger, infatti, tira una torta in faccia a Brian Jones, chissà se con intenzioni burlesche, e la serata finisce a torte all’aria come nelle comiche. Il 10 e l’11 dicembre, invece, si tiene lo spettacolo The Rolling Stones Rock’n’Roll Circus, sempre per promuovere Beggars Banquet. Il risultato è però così altalenante che i nastri del concerto rimangono per anni nei cassetti.
Un paragrafo a parte merita la copertina del disco, famosa e famigerata. Lo scatto prescelto ritrae infatti una squallida latrina di un locale di Los Angeles, quasi a rimarcare gli intenti sporchi e cattivi della band. Una fondata leggenda narra che, prima di far scattare la foto a Barry Feinstein, Jagger e Richards aggiungano di proprio pugno dei graffiti coi crediti dell’album.
Negli Stati Uniti, terra della libertà sempre pronta a censurare qualsiasi cosa, Beggars Banquet esce con una candida copertina bianca. Insozzare l’idea del sogno americano con una delle loro latrine no, evidentemente non si può.
Siamo ora al momento di sistemare Beggars Banquet sul vinile e capire, più di cinquant’anni dopo, come suona oggi.
L’attacco è per il pezzo forte del disco e uno dei brani più rappresentativi degli Stones, Sympathy for the Devil. Il pezzo parte in sordina, con le percussioni e il piano del grande sessionman Nicky Hopkins a punteggiare gli accordi. A mano a mano si aggiungono gli strumenti e la canzone prende la struttura di una scatenata samba.
Il testo ha fatto versare i proverbiali fiumi d’inchiostro e narra la storia dell’umanità dal punto di vista del diavolo stesso, che cerca quasi di empatizzare con l’ascoltatore. Satana narra le sue responsabilità nei grandi fatti della storia, da Gesù a Kennedy, con la voce quasi da comizio di Mick Jagger. Richards, che in Beggars Banquet impazza alla chitarra solista, si ritaglia un assolo con un suono acido e tagliente come mai prima. La sua Telecaster sembra nevrotica quanto il suo domatore.
L’ispirazione del brano venne a Jagger dalla lettura di Il Maestro e Margherita, classico di Bulgakov che gli aveva regalato Marianne Faithfull. Un avvio leggendario e una risposta da tenere pronta quando si dice che Richards non è un buon chitarrista solista. Il suo assolo, lontano dai virtuosismi, è però perfetto nel contesto.
Del resto, fu proprio il buon Keith, ironizzando, a dire che quando entri in un negozio non ti chiedono mica se vuoi una chitarra solista o una ritmica, a rimarcare l’ottusità di certe etichette.
Il disco va avanti con No Expectations, una bella ballata acustica che affronta blandamente il tema del rimpianto amoroso. La parte musicale è molto interessante, con l’attacco che vede due chitarre acustiche, una ritmica e l’altra suonata slide. Quest’ultima è impugnata da Brian Jones, che qui dà il suo unico vero contributo al disco.
La canzone venne registrata in presa diretta in studio, coi musicisti seduti a terra in cerchio. Ricorda Mick Jagger: “No Expectations è l’ultima volta in cui Brian fu coinvolto totalmente in qualcosa di veramente valido.”
Si passa così al primo dei numeri genuinamente country di Beggars Banquet, Dear Doctor. Pur proponendo tutti gli stilemi del country, con Richards che suona tutte le chitarre e Jones all’armonica, il pezzo può considerarsi una riuscita parodia del genere. Il testo, infatti, è fortemente ironico e il falsetto finale porta tutto verso il pastiche.
Parachutes Woman segna invece il ritorno dei Rolling Stones al blues vero e proprio.
In questo pezzo siamo infatti in pieno territorio della musica del diavolo, anche nella struttura del testo, con la prima strofa ripetuta e la “risposta” a chiudere nel terzo. Richards suona da par suo tutte le chitarre, mentre è ancora dibattuta la questione dell’armonica; non si sa, difatti, se a suonarla sia Jagger o di nuovo Jones.
La prima facciata è chiusa da Jigsaw Puzzle, altro pezzo da novanta di Beggars Banquet. Al pari di Sympathy for the Devil, il brano va in crescendo e dura quasi sei minuti. Il testo, fortemente influenzato da Dylan, traccia un quadro surreale dei componenti di una band. Surreale fino a un certo punto, visto che il ritratto somiglia molto agli Stones del periodo.
La chitarra slide di Richards è particolarmente ficcante e lamentosa, mentre l’apporto di Brian Jones è questa volta al mellotron, che rimane abbastanza sfumato.
Il secondo lato si apre con Street Fighting Man, terzo cavallo di battaglia dell’album. La canzone è ovviamente ispirata ai disordini nelle strade del ’68, in particolare alle contestazioni contro l’affare Vietnam. Più che una canzone rivoluzionaria, come pensano in Usa, dove la canzone è censurata dalle radio, si tratta di un resoconto piuttosto disilluso.
“But what can a poor boy do/Except to sing for a rock’n’roll band?” (“Ma che cosa può fare un povero ragazzo/se non cantare in una band di rock’n’roll?”) canta a un certo punto Jagger.
La parte musicale nasce da uno dei tipici riff di Keith Richards, che però all’epoca ancora tanto tipico non è. Per questo, oltre che per il testo, la canzone assume una particolare valenza all’interno del loro repertorio. Il pezzo accusa anche Londra di “dormire” rispetto alle altre grandi capitali del periodo: “’Cause in sleepy London town/There’s just no place for a street fighting man, no”.
Il blues torna in Prodigal Son; stavolta siamo di fronte a uno standard del 1929 di Reverendo Robert Wilkins. I Rolling Stones, però, si dimenticarono, almeno inizialmente, di citare il vero autore, firmando il blues come Jagger-Richards. Si tratta di un tipico blues acustico, materia che i Rolling Stones padroneggiano egregiamente.
Nella successiva Stray Cat Blues il blues è presente giusto nel titolo. Il brano si muove infatti più dalle parti del funk, con un andamento e una prestazione vocale di Jagger che strizzano l’occhio ai Velvet Underground. Proprio Mick ammette l’influenza della band di New York, di Heroin in particolare. Il tema è altrettanto scabroso, ma sul versante sessuale, narrando la torbida passione di un adulto per una ragazzina.
Factory Girl è un altro brano country, vagamente parodistico. A livello di intenti fa parte del piano che prevede la riconquista della parte più operaia dei loro fan, inneggiando alle ragazze che lavorano in fabbrica. Prettamente acustica, è arricchita da un effetto mandolino che è in realtà riprodotto al mellotron da Dave Mason dei Traffic. Notevole anche l’apporto al violino di Ric Grech.
Beggars Banquet si chiude con un altro inno alla classe operaia, Salt of the Earth. L’apertura vede Keith Richards alla voce, col suo tipico timbro agonizzante. La canzone si apre poi in una sorta di gospel, con tanto di coro, che anticipa i futuri fasti di You Can’t Always Get What You Want.
Il disco, checché se ne pensi, fa peggio del precedente Their Satanic Majestic Request, ma solo a livello commerciale. La critica applaude compatta, tanto che molti ritengono il lavoro il miglior album rock degli anni Sessanta.
“C’è di tutto: la Bibbia, Satana, scontri di piazza e naturalmente sesso. La cosa migliore mai fatta dagli Stones” scrive il Sunday Mirror; l’International Times fa ancora meglio: “Questo album sta ai Beatles come Courbet sta a Manet, Michelangelo a Tintoretto, il Realismo all’Espressionismo”.
Al di là della critica, Beggars Banquet rimane ancora oggi un disco seminale; il lavoro che segna finalmente l’equilibrio della band, con un suono che, bene o male, sarà quello dei successivi cinquant’anni. Un equilibrio che non prevede l’estro e la sregolatezza di Brian Jones, licenziato poco dopo, che non vedrà mai il luminoso futuro della sua creatura.