Blue Valentine è il sesto album di Tom Waits, un lavoro che prosegue la costruzione del suo mondo in direzione ostinata e contraria rispetto al grande sogno americano.
Quando, nel settembre del 1978, Blue Valentine esce, Tom Waits ha già una solida fama di erede dei poeti della Beat Generation. Charles Bukowski, in particolare, pare essere la sua grande ispirazione, tanto che i due sono amici. Ma Charles non è l’unico, da Henry Miller a Jack Kerouac fino ai poeti beat, Tom Waits pare voler continuare l’opera sistematica di demolizione dell’american way of life.
Tom nasce nel 1949 a Pomona, in California. Nonostante le sue origini siano saldamente piantate in Europa, tra Scozia, Irlanda e Norvegia, la sua parabola ricorda quella di tanti bluesman neri. La giovinezza di Waits è infatti segnata dalle ristrettezze economiche, soprattutto dopo che i genitori si separano. Giovanissimo, Tom inizia a sbarcare il lunario lavorando come cameriere o anche solo come lavapiatti.
Proprio in uno dei locali dove lavora, una sera – narra la leggenda sotto l’effetto dell’alcol – si siede al piano e inizia a raccontare le sue strambe storie di personaggi ai margini della società. Un po’ cantastorie, un po’ bluesman e un po’ outsider, Tom si guadagna i primi applausi. Il titolare, anziché arrabbiarsi e ricacciarlo in cucina, ha la lungimiranza di ingaggiarlo in quel nuovo ruolo.
Inizia così, tra i fumi della leggenda, la vicenda del Tom Waits artista.
Votato alla notte, sempre sul filo della lucidità e cantore degli ultimi e degli emarginati, Tom Waits inizia a registrare e ottenere i primi riconoscimenti. È una sorta di Bruce Springsteen al contrario, il nostro. Se il Boss narra l’America operaia che, sotto la protezione della bandiera, riscatta le umili origini e dà corpo al celebrato sogno americano, Waits canta di quelli che non ce la fanno.
Anche i risultati echeggiano questa dualità. La critica coccola Tom, ma il pubblico all’inizio lo snobba; con Springsteen accade un po’ il contrario.
Rispetto a chi ce la fa, gli underdog sono molti di più. Nascosti in fetidi motel, dove c’è sempre una lettera che non lampeggia nell’insegna al neon, o in fumosi bar dove annegano in un bicchiere sogni che la pioggia trascina giù nelle fogne. I rain dogs, i barboni della California che daranno il titolo a un altro suo capolavoro, ma anche gli amori sbagliati.
Già, perché il buon Tom, col suo fascino maledetto, passa da un flirt all’altro, vanificando sempre tutto in nome della sua filosofia da ramblin’ man, da vagabondo. Fino a quando non riesce a trovare una sorta di stabilità con la cantautrice Rickie Lee Jones, con cui si accompagna per qualche anno. E guarda caso, nasce proprio in quel periodo Blue Valentine, forse il disco più equilibrato fino a quel momento, con Rickie che appare anche nelle foto.
Le dieci canzoni di Blue Valentine vengono registrate tra luglio e agosto del 1978, in uno studio a Hollywood. La produzione è affidata a Bones Howe e il sound mescola come sempre jazz, blues, un po’ di rock e un tocco datato nelle canzoni più romantiche. Stavolta, però, Tom pare trovare il giusto dosaggio degli ingredienti e della voce, che si fa sempre più roca.
L’attacco di Blue Valentine è straniante. Somewhere è infatti una celebre canzone di West Side Story, il musical del 1957. Il testo si apre alla speranza di trovare un posto migliore e la voce da orco di Tom vira qui dalle parti dei più ispirati crooner. Gli archi regalano un’atmosfera sognante, punteggiata di tanto in tanto dalla tromba jazz.
Basta però aspettare qualche secondo ed eccoci nelle atmosfere noir da bassifondi tanto care a Waits con Red shoes by the drugstore. Sul tipico ritmo sghembo sospeso tra talking blues e jazz, il cantante di Pomona snocciola una delle sue storie di amore e crimine.
Un certo sentimento quasi romantico affiora di nuovo dalla lenta ballata pianistica che segue. Si tratta di Christmas Card From A Hooker In Minneapolis, un vero e proprio gioiello. Tom canta la lettera di una prostituta a Charlie, forse un vecchio amante o forse solo un cliente. La donna parla della sua condizione, dice di essere incinta e di avere trovato una relazione stabile, con uomo che suona il trombone e che promette di prendersi cura di lei e suo figlio.
La lettera vira però pian piano alla malinconia; alla fine, la donna confessa che non esiste nessun uomo che suona il trombone e che si trova in carcere. La musica è struggente, sospesa ancora tra la canzone d’autore di un tempo e il jazz più malinconico.
Il ritmo aumenta e parte Romeo is Bleeding, ancora un piccolo film cantato da Tom Waits. Il riferimento di nuovo a West Side Story è evidente, ma la storia è secondo Tom accaduta realmente; una squallida vicenda di un ragazzo messicano di una piccola banda di delinquenti che finisce i suoi giorni contro la lama di un coltello a Los Angeles.
Il ritmo quasi swing, la batteria suonata con le spazzole e il lungo assolo di sassofono, tutto restituisce l’impressione di trovarsi in un fumoso locale notturno. La voce di Waits, poi, è qui insuperabile nell’interpretazione. Notevole l’uso dello spanglish, slang utilizzato in certi ambienti.
La successiva 29.00 $ è una delle incursioni di Waits nel blues più fedeli al canone.
Sulla base di uno slow blues alla T-Bone Walker, con tanto di splendido piano boogie e di una chitarra liquida, Tom Waits mostra il suo smalto da crooner blues. La storia è quella di una ragazza che raggiunge Los Angeles da Chicago in cerca di fortuna, con ventinove dollari e una borsa di coccodrillo. Inutile dire che le cose non finiranno troppo bene.
Si volta il vinile e parte uno dei pezzi più emblematici della poetica di Waits, Wrong side of the Road. La storia raccontata è a metà tra un film on the road alla Bonnie & Clyde e una serie di sortilegi voodoo. Più importanti, però, sono l’atmosfera e il titolo stesso, inneggianti alla parte sbagliata della strada. Quella parte sbagliata su cui Tom è inevitabilmente lanciato, assieme ai personaggi che racconta.
L’atmosfera è ancora quella di un morbido jazz-blues, di quelli da suonare a luci soffuse.
Si va avanti, in questo viaggio tra le miserie americane, con Whistlin’ past the Graveyard. È ancora la storia di un vagabondo che gira un po’ a caso, fischiettando nel cimitero e arrangiandosi come può. Ancora quell’America ai margini e senza possibilità di riscatto di cui Tom è cantore. La musica questa volta è frenetica, all’insegna di un blues “in staccato” che si fa quasi boogie nel ritornello.
“I was born in a taxi cab I’m never going home” è una frase che la dice lunga sull’immaginario di Tom Waits. Oltre a essere pura poesia.
Kentucky Avenue arriva a rallentare la corsa prese da Blue Valentine. Siamo ancora davanti a una ballata per pianoforte, a suo modo perfino classica. Il testo, a quanto raccontato dallo stesso Waits, è autobiografico. Tom da ragazzino ha vissuto davvero in Kentucky Avenue e alcuni personaggi della canzone erano davvero amici o vicini di casa.
C’è ancora spazio per uno dei film in musica di Tom con A Sweet Little Bullet from a Pretty Blue Gun, uno dei capolavori del disco. Su un ritmo sincopato di un jazz quasi tribale, si narra ancora la storia di una ragazza che finisce a dormire in un motel e forse per fare una brutta fine.
Dall’insegna del Gilbert Hotel, con un paio di lettere spente nel neon, che ricorda tanto il motel di Psycho, a Marilyn Monroe, tutti i cliché di tanto cinema americano sono presenti.
L’arrangiamento, il testo, l’incredibile voce di Tom: tutto è perfetto.
La chiusura è per Blue Valentine, forse il pezzo più ispirato del lavoro.
Una ballata jazz malinconica che si regge su una chitarra elettrica che fa da sfondo e la voce, qui davvero pazzesca, di Tom Waits. Un arrangiamento da cui molti prenderanno qualcosa, anche il Jeff Buckley di Hallelujah. Tutti senza eguagliare il pathos del crooner di Pomona.
Si chiude così, con un altro capolavoro, Blue Valentine. L’album rimane importante snodo nella carriera di Waits, che forse farà ancora meglio negli anni a venire. Anche se l’intensità emozionale di questo album rimane difficilmente eguagliabile.