«Un uomo, una famiglia scacciata dalla terra; questa carretta arrugginita che arranca sulla nazionale per andare all’Ovest. Ho perso la mia terra, un singolo trattore ha preso la mia terra. Sono solo e sono smarrito. E nella notte una famiglia si accampa in un fosso e un’altra famiglia arriva e tira fuori le tende.» (J. Steinbeck, Furore)
Il dramma della famiglia Joad, contadini oriundi del Sud America che, rimasti senza terra e senza casa negli anni della Grande Depressione, si mettono in viaggio con il loro camion – «il principio vivente», «il nuovo focolare» – verso l’Ovest, è il fulcro di Furore di John Steibeck (titolo originale The Grapes of Wraght).
Nel descrivere questa emigrazione, l’Autore americano non prende parte alla storia, ma la racconta oggettivamente e accompagna i personaggi nel loro cammino fino alla California, «che freme di vita nascente», ma dove scopriranno di essere stranieri in patria.
Cos’è Furore? È un grido di protesta contro l’homo homini lupus; è la dimostrazione, l’ennesima, della simbiosi tra l’uomo e la natura (onnipresente ora nell’alba e nel tramonto, ora nella polvere rossa del suolo californiano) che entrano in conflitto – ecco il motivo della violenza – quando l’uno tradisce l’altra.
È altresì un viaggio di una duplice ricerca: di lavoro e d’identità, l’uno e l’altra interdipendenti; è uno spostamento che si snoda sotto il segno della speranza, mirante a riacquistare la fiducia in un futuro migliore, a riconquistare l’Eden perduto e, in definitiva, tornare a vedere la luce, sconfiggendo il “mostro” che li ha cacciati e privati della loro terra:
«Il mostro non è fatto di uomini ma fa fare agli uomini quello che vuole. Ma dove andremo se ce ne andiamo? Come faremo? Non abbiamo denaro.»
La forza di questo romanzo risiede nella coesione dei Joad, che più volte si perdono d’animo, più volte sono tentati di arrendersi, ma la voglia e la determinazione di andare avanti, un passo dopo l’altro, e di farcela perché l’unione fa la forza e perché «non va bene quando la famiglia si divide», ha un potere terapeutico e un effetto corroborante:
«Le donne e i bambini sapevano dentro di sé che non esistevano disgrazie insormontabili se i loro uomini restavano saldi».
A incarnare l’insicurezza, a personificare i dubbi e farsi a suo modo latore di un tragico smarrimento esistenziale è Casy, il predicatore che si è spogliato della veste talare, ma che continua tuttavia a predicare, diventando a suo modo il catalizzatore delle inquietudini della sua gente, ma perdendosi egli stesso nelle sue elucubrazioni che hanno un’unica origine: sentirsi inutile e di troppo:
«Me ne sono andato da solo e ho cercato di capire. Lo spirito me lo sento ancora forte dentro, ma non è più uguale a prima. Non sono più sicuro di un sacco di roba. […] a volte lo spirito ce l’ho ma non ho niente da predicare. Ho la vocazione di portare la gente ma non ho un posto dove portarla.»
Un altro personaggio dotato di una forza tale da far vibrare l’anima è Ma’, la madre di Tom, che in più occasioni fa le veci del capofamiglia, ligia a un precetto, che è la sua fede personale, e che non le verrà mai meno: combattere, senza arrendersi mai.
È una qualità di Ma’ che si conosce sin dall’inizio del romanzo, cui si aggiunge il senso della misura e dell’equilibrio, e che si contrappone alla debolezza di Nonno, suo padre, che non si rassegna ad abbandonare la sua terra («Questa terra non vale niente ma è la mia terra») e il dolore sarà insopportabile.
«Il ruolo di Ma’ in seno alla famiglia le aveva conferito dignità e una nitida, equilibrata bellezza. […] Sembrava sapere che se lei avesse vacillato, l’intera famiglia avrebbe tremato, e che se un giorno si fosse trovata a cedere o a disperare davvero, l’intera famiglia sarebbe crollata, avrebbe smarrito ogni volontà di funzionare.»
Ciò non toglie che anche lei abbia momenti di sconforto, di smarrimento, di un lassismo pressoché totale, traditi dallo sguardo, dalle rughe e dall’esternare la sua paura più grande: vedere la sua famiglia andare in pezzi, perché «non c’è più niente a tenerci insieme».
Sia Ma’ che il predicatore sanno fin troppo bene che è difficile lasciare il posto in cui si vive, perché «la gente è il posto dove vive», e togliendoglielo la condanna a morte. Ma entrambi sono consapevoli – il loro faro è la speranza imperitura – che altrove si può ricominciare, poiché l’uomo – e qui ci viene in aiuto Raskol’nikov-Dostoevskij – “è una canaglia che si abitua a tutto”.
Abituarsi e ricominciare sì, anche se niente sarà più come prima e nessuno sarà più quello che era, poiché in tutti si è rotto qualcosa dentro, tutti si sentiranno dimidiati, trasformati dalle trasformazioni del mondo (Calvino) e tutti avranno per sempre la sensazione di un vuoto che in alcun modo potrà essere colmato.
Una perdita della propria identità che affonda le radici nella fuga forzata, nell’abbandono coercitivo della propria casa, acquisendo di fatto il “titolo” tutt’altro che munifico, di apolide. E allora «come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?»
In questo viaggio verso la terra promessa alla ricerca di un posto fisso, ognuno fa i conti con sé stesso e con le proprie fragilità; ognuno scende negli abissi di sé, esplorando e portando in superficie ciò che è rimasto seppellito e taciuto troppo a lungo, fosse anche il desiderio di “starsene sdraiato senza mai avere fame e senza essere mai triste” (Noah) e senza pensare (Pa’).
E ancora una volta è Ma’ a dare una strigliata, a scuotere le persone che ama affinché non si abbandonino, disgregando la famiglia. Ognuno dei componenti è un soltanto un pezzetto di un’anima più grande: uniti e insieme possono tutto, da soli non servono a niente. Ed è Tom Joad a custodire il prezioso insegnamento di Casy:
«Lo sai a chi pensavo? A Casy! Quello parlava un sacco. Io mi seccavo a sentirlo. Ma ora ho pensato alla roba che diceva, e me la ricordo… tutta quanta. Dice che una volta era andato nel deserto per cercare la sua anima, e aveva scoperto che lui non ce l’aveva un’anima tutta sua. Dice che aveva scoperto che lui aveva solo un pezzetto di un’anima grande e grossa. Dice che il deserto non andava bene, perché il suo pezzetto di anima non serviva a niente se non stava con tutti gli altri pezzetti, e non faceva un’anima intera. è strano che me lo ricordo. Mi pareva che manco lo stavo a sentire. Ma ora so che uno se sta da solo non serve a niente.»
Furore non è soltanto un romanzo che dà voce a chi è costretto ad abbandonare la sua terra perché non ha più nulla, non è soltanto un grido di dolore e disperazione che in alcuni si trasforma in rabbia, poi in paura e in furore, e in altri diventa causa di annientamento.
Furore è anche la storia di una famiglia che nell’avversità si tiene stretta, ben consapevole che la perdita di un tassello, fosse anche la più piccola parte del castello, comporta un naufragio a cui non si può porre rimedio.
Lettura consigliata!
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Recensione a cura di Antonietta Florio, pubblicata in origine sul Club del sapere filosofico.