Siamo al centro degli anni ’90, quelli del grunge, dei CD che detengono il mercato mondiale… siamo all’indomani di un suicidio ancora oggi “misterioso”, quello di Kurt Cobain, che in qualche modo ha buttato una benzina allegorica sul bisogno di rivalsa e di esistenza che la musica rock aveva da rivendicare sulla vita dei santi.
Come se in fondo, il riflettore, dovesse puntare anche sugli ultimi… che poi sono diventati i primi, ma questo evidentemente non è bastato, anzi forse è stato fin troppo scomodo per anime troppo sensibili come quella del 27enne di Aberdeen. Ma qui parliamo di altro… parliamo dell’ennesimo cambio di rotta che la storia del rock ci regala, spazzando via abitudini e aspettative. Circa 10 anni prima il Boss ci aveva fatto vedere di cosa era capace senza E Street Band al seguito, pubblicando alla fine soltanto i demo di quel “Nebraska” che personalmente lo reputo indispensabile ma non definitivo. Non era dunque prevedibile in quel 1995 un disco come “The Ghost of Tom Joad” anche pensando al suono che anni prima lo ha immortalato nell’olimpo di quei santi li… non era prevedibile dicevano in molti a quel tempo, eppure Bruce Springsteen, in quel 1995 poco politicamente corretto su più fronti, ha rivoluzionato per l’ennesima volta le abitudini del suono rock tornando alla radice della parola, del folk quasi tout court figlio di tradizioni antiche, discepolo anche lui di un Guthrie che richiama secondo me anche sotto una veste letteraria…
Perché non dobbiamo dimenticarcelo quel suo romanzo dal titolo “Una casa di Terra”, un flop direbbero i commercialisti, ma anche l’allegoria letteraria di quella grande depressione del ’29 che ci arriva dalla penna del padre della canzone folk mondiale, romanzo che per diritto di cronaca dobbiamo a Johnny Depp che lo ha scoperto e riportato alla luce anni e anni dopo.
Punto e a capo… ma non troppo…
Di grande depressione parliamo, di anni ’30 e di quel romanzo “Furore” di Steinbeck (poi celebre film di John Ford) dentro cui il protagonista – appunto Tom Joad – sparisce, diviene un fantasma, uno spirito, viene ammazzato dirà qualcuno… comunque non ci stava a piegar la schiena allo schiavismo di un sistema capitalistico spietato e senza ritorno. Le multinazionali ingoiavano i piccoli a suon di denaro spicciolo e briciole lasciate in pasto alla povertà, mangiavano case, bevevano interi raccolti di una vita lasciando sulle strade il crocevia di carovane migratorie dilaniate dalla fame vera… e si migrava verso piantagioni di cotone o verso qualche occasione buona dove procurarsi lavoro anche per una giornata soltanto.
“The Ghost of Tom Joad” dicevamo: sintetico, snello, di sangue quasi esclusivamente letterario, dove soltanto la sua voce folk, che alla musica chiedeva appena un arredo, custodisce la ragione del tutto…
E si ricordi a tal proposito quel Boss sul palco di Sanremo, quando pretese la solitudine totale attorno: niente orpelli, niente musicisti, poco suono attorno alla sua voce che soltanto doveva bastare. Ed è così che “The Ghost of Tom Joad” si dimostra un disco fatto di storie di emarginazione, di ultimi, di quella povertà che schiavizza e che diviene poi comodo strumento di manipolazione. Argomento che da Springsteen a Faber è stato ampiamente battuto e criticato… che ragione ha un ricco di parlare dei poveri? Altrettanto leggendaria e assai strumentalizzata ad arte fu quella famosa risposta che recitava: “quando della povertà parlano i poveri non li state a sentire, quando ne parla un ricco dite che è ipocrita e non ne ha diritto. In altre parole: dei poveri non si deve parlare mai”.
Ho ancora vivo il ricordo di quelle prime edizioni dalle dinamiche analogiche inascoltabili in auto, quando i regimi bassi erano davvero sussurrati e alzavi subito il volume per codificare la prima strofa della title track che apriva l’ascolto…
Alzavi per capire ma poi arrivava l’inciso e ti toccava abbassare per non sfondare il cartone dei coni. E così finivi per ballare col potenziometro per quasi tutto il disco finché non si decisero ad una recente ristampa dal master decisamente più industriale e omologato, godibile e meno anarchico… tuttavia, pigrizia tecniche a parte, “The Ghost of Tom Joad” resta per me un disco da ascoltare rigorosamente a luci spente, con un bicchiere di vino e qualche giornata pesante da lasciarsi alle spalle.
Recuperiamo il master di quegli anni ’90 per apprezzare al meglio quell’incontro perfetto tra voce narrante e melodia, tra timbrica e chitarra acustica.
Non solo estetica del suono ma soprattutto quell’incanto altissimo raggiunto dalla sua voce che in ogni momento melodico manifesta una potenza narrativa che raramente ho sentito altrove. “Non è un disco” “The Ghost of Tom Joad”, non ci sono ritornelli geniali ne ricami fascinosi di melodie da autoradio. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, sotto questo preciso punto di vista può anche essere un disco povero di ispirazione se vogliamo paragonarlo a quel che è stato capace di regalarci il Boss nelle opere precedenti. “The Ghost of Tom Joad” invece penso proprio sia un “romanzo”, cantilenante come le pagine di Steinbeck quando la carovana dei Joad abbandona le terre invase dall’alluvione, allegorico come quando la casa di terra di Guthrie significava la resa dell’individuo al conformismo industriale… è un “romanzo” sospeso, dispotico perfettamente accostato alle desolazione di Cormac McCarthy che ho trovato altrove, citazione calzante secondo me.
E la trovi puntuale quella forma pop di strofa ritornello bridge, la trovi in “Sinaloa Cowboy”, una storia fatta e finita dei fratelli Miguel e Louis che dal Nord del Messico arrivano in California per sbarcare il lunario per poi trovare la morte, o dentro “Higway 29”, lungo la grande statale dove si consuma un sonno dei morti e una rapina di sangue… e la trovi anche dentro la rinascita di Charlie, dopo il carcere e una vita al limite con la scimmia sulle spalle (canta il Boss in “Straight Time”)…
C’è la pena di Kerouac, il fango di Steinbeck, la violenza di Capote, c’è l’America degli ultimi e quella dei potenti che sugli ultimi sputano.
Quell’America che guarda solo al profitto e che devasta anche la sua stessa terra con mille di quelle acciaierie del boom economico, quelle “Sweet Jenny” – come le chiamavano gli operai in Ohio in “Youngstown” – che al profitto del presente hanno poi rovesciato una devastazione ambientale ed economica senza ritorno…
Lo ascolto ancora “The Ghost of Tom Joad”, lo sento come un disco intimo, viscoso di ruggine e di acido, silenzioso, davvero tanto silenzioso… ma anche nudo, non scarno e solipsistico come “Nebraska” e neanche ragionato come “Devils & Dust” (disco che sembrava averci preso gusto nella formula acustica). “The Ghost of Tom Joad” a suo modo penso sia un’opera unica nella carriera del Boss, dentro cui il suono è privo di maschere ma non ha i piedi scalzi dei poveri, dove non esiste rabbia e rancore ma soltanto una consapevole resilienza propria di chi la storia la racconta e la sa denunciare.
Recuperate il master di quel tempo…
Sedetevi all’ascolto… leggetene i testi… e poi piano piano sognate, come accadeva alla famiglia Joad in quei lontani anni ’30… sognate, che domani si arrivi sani e salvi in una terra ricca di lavoro e futuro, “Where pain and memory, Pain and memory have been stilled,There, across the border”…