Un classico si riconosce perché non finisce mai di dire quello che vuole dire; parafrasando Italo Calvino, ecco a voi un gigante della letteratura americana. J.D. Salinger e Il Giovane Holden.
«Chi cade non ha neppure modo di accorgersene, o di sentire quando tocca il fondo. Continua a cadere e basta. È una sorte riservata agli uomini che, a un certo punto della vita, si sono trovati a cercare qualcosa che il loro ambiente non era in grado di dargli. O che loro pensavano non fosse in grado di dargli. Allora hanno smesso di cercare. Si sono arresi prima di cominciare davvero. Mi segui? […] Ecco cos’ha detto Wilhelm Stekel: “Ciò che contraddistingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che contraddistingue l’uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa.» (J.D. Salinger, Il giovane Holden)
Il giovane Holden di J.D. Salinger è la storia, narrata in prima persona, di Holden Caulfield che, espulso dal college poche settimane prima del Natale, torna a New York cercando di non farsi scoprire dai genitori. Impulsivo e rude, sensibile e fragile, il giovane Holden fa percepire sin da subito la tendenza a sentirsi disadattato, quasi di troppo al cospetto degli altri e fuori luogo in ogni dove:
«Se davvero volete sentirne parlare, la prima cosa che vorrete sapere sarà dove sono nato, e che schifo di infanzia ho avuto, e cosa facevano e non facevano i miei genitori prima che nascessi, e altre stronzate alla David Copperfield, ma a me non va di entrare nei dettagli, se proprio volete la verità. […] E poi non mi metto certo a farvi la mia stupida autobiografia o non so cosa.»
La sensazione di scomparire, o addirittura di non esistere è asfissiante, ma il problema non è tanto l’espulsione in sé, quanto le conseguenze psicologiche che essa provoca in Holden. Lo sospettava, è vero; anzi, doveva aspettarselo, dato che era già stato avvisato, ma lui niente:
«Mi è già capitato di lasciare scuole e altri posti senza nemmeno sapere che me ne stavo andando. Ed è una cosa che odio. Non importa se è un addio triste o brutto: io, quando me ne vado da un posto, voglio sapere che me ne sto andando. Altrimenti stai ancora peggio.»
Da qui cominciano le peripezie del giovane. Con fare vagabondo e per nulla intimorito da ciò che potrebbe incontrare sulla strada, solo, ma con la quantità di denaro sufficiente a prendere taxi, fare colazione e cose simili, Holden riflette sulla vita («La vita è una partita che va giocata secondo le regole») e sui problemi che l’età adolescenziale porta con sé.
Non solo, ma il suo vaglio critico finisce col coinvolgere un insieme più ampio di persone, “della gente che non fa mai caso a niente”, che «deve sempre rovinarti tutto» e che obbedisce al solo vangelo dell’ipocrisia. D’un tratto, poi, la mente torna al fratello scomparso e la rabbia cede il posto alla malinconia, alla solitudine, alla depressione:
«Mi sono alzato e sono andato a guardare fuori dalla finestra. Di colpo mi sentivo così solo. Quasi avrei voluto morire. […] Stavo da schifo, ragazzi. Mi sentivo solo come un cane.»
In guerra con se stesso, prima ancora che con il mondo, Holden torna a casa, approfittando dell’assenza momentanea dei genitori. Qui trova l’unica persona a cui e con cui piace parlare, la sua sorellina, la «vecchia Phoebe». La quale, però, gli pone una domanda che, una volta di più, alimenta il suo tormento. Non tanto perché lo prende in contropiede, quanto perché fondamentalmente una risposta (ancora) non ce l’ha. E se Phoebe, quasi ammonendolo, gli dice:
«A te non piace mai niente, di quello che succede. […] Non ti piace nessuna scuola. Non ti piacciono un milione di cose. Non ti piace niente.»
il professore Antolini, l’altra persona presso la quale il ragazzo cerca rifugio, lo rincuora così:
«Io credo che prossimamente […] tu dovrai per forza di cose scoprire da che parte vuoi andare e a quel punto dovrai metterti in cammino. Ma subito. Non puoi permetterti di perdere un solo minuto. Non tu.»
L’arzillo professore, dunque, dà espressione al sentimento di Holden, alla confusione, allo smarrimento e allo spavento che molti prima di lui hanno provato e che molti altri dopo di lui inevitabilmente proveranno. È così che dà al giovane una dritta, facendogli capire che se è vero che (ora) non ha un posto dove andare (e, forse, nemmeno sa dove andare), non è meno vero che la strada deve tracciarla da sé:
«C’è un’altra cosa che lo studio accademico ti regalerà. Se lo porterai avanti per un tempo significativo, comincerà a darti un’idea delle dimensioni della tua mente. […] Dopo un po’ ti sarai fatto un’idea dei pensieri che stanno bene addosso a una mente della tua taglia.»
Eppure oltre a «Stare seduto qui con te [con Phoebe] a fare due chiacchiere», c’è una sola cosa che il giovane Holden vorrebbe fare e che, forse o quasi sicuramente, vorrebbe che qualcuno facesse per lui. Un qualcosa che trova una sintesi mirabile e perfetta in un verso di Robert Burns: «Se ti viene incontro qualcuno mentre cammini in un campo di segale». E che poi il ragazzo elucida così:
«Ad ogni modo, io mi immagino sempre tutti questi bambini che giocano a qualcosa in un grande campo di segale e via dicendo. Migliaia di bambini, e in giro non c’è nessun altro – nessuno di grande, intendo – tranne me, che me ne sto fermo sull’orlo di un precipizio pazzesco. Il mio compito è acchiapparli al volo se si avvicinano troppo, nel senso che se loro si mettono a correre senza guardare dove vanno, io a un certo punto devo saltar fuori e acchiapparli. Non farei altro tutto il giorno. Sarei l’acchiappabambini del campo di segale. So che è da pazzi, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe fare davvero. Lo so che è da pazzi.»
Desideri e sentimenti, questi espressi dal giovane Holden, che riflettono i medesimi desideri e sentimenti di quanti si sentono soli e sull’orlo di un precipizio, che hanno un bisogno disperato, e ciononostante inespresso, di essere presi per mano, di avvertire una presa granitica, sincera, sicura. Di potersi finalmente abbandonare e perdere nella stretta amorevole dell’acchiappabambini del campo di segale. E chiunque incontri quell’acchiappabambini è una persona fortunata.
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A cura di Antonietta Florio.