I conflitti e le guerre hanno un inizio e una fine, ma la musica combatterà sempre questi massacri insensati.
“Eve of Destrucion” – Barry McGuire (1965)
È il 1964 quando P.F. Sloan scrive “Eve of Destruction”, ma soltanto l’anno successivo sarà registrata da Barry McGuire, la cui voce roca e stanca di chi è ancora in un studio a tarda notte rende perfetta quella semplice versione di prova.
Il produttore, Jay Lasker, è talmente tanto entusiasta del risultato che lo porterà la mattina stessa alla stazione radio di Los Angeles KFWB: “Eve of Destruction” verrà riprodotta per la prima volta.
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Divenuta simbolo di protesta degli anni Sessanta, la canzone evita qualsiasi riferimento diretto al Vietnam, seppur il verso «The Eastern world, it is explodin’» è più che esplicativo. Il testo di Sloan, inoltre, sottolinea uno degli aspetti critici del pensiero americano: non si è abbastanza maturi per votare, ma si è abbastanza grandi per andare in guerra. Difatti, la legge negli USA prevede come età minima votare a 21 anni, mentre ne bastano 18 per arruolarsi.
Proprio a causa degli argomenti antigovernativi trattati, il brano ha trovato molte resistenze da parte delle radio che non l’hanno trasmessa. Tuttavia, la controversia ha causato solo interesse mandandola in cima alle classifiche negli Stati Uniti, oltre che nella top 10 di altri Paesi.
“C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” – Gianni Morandi (1966)
Pubblicata nel 1966, “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” raggiunse il primo posto nella hit parade italiana rimanendoci per tre settimana.
È una canzone di protesta quella scritta da Franco Migliacci con la musica di Mauro Lusini e arrangiamento di Ennio Morricone, una canzone dove la voce di Gianni Morandi è il giusto mezzo affinché il messaggio giunga forte e chiaro all’ascoltatore.
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La guerra in Vietnam divampa e, come il napalm, brucia ogni sogno e speranza di quel ragazzo americano che amava i Beatles e i Rolling Stones. «Han detto va’ nel Vietnam e spara ai Vietcong», han detto sacrificati per un ideale che forse nemmeno ti appartiene. Sostituita la chitarra con un’arma, il giovane soldato «vede la gente cadere giù, nel suo paese non tornerà, adesso è morto nel Vietnam».
A causa dell’esplicito dissenso nei confronti della guerra in Vietnam e degli Stati Uniti – Paese amico dell’Italia –, la Rai censurò la canzone suscitando anche un’interrogazione parlamentare.
“I feel like I’m fixing to die rag” – Country Joe and the Fish (1967)
Guidati dal veterano della Marina degli Stati Uniti Joe McDonald, i Country Joe and the Fish pubblicano nel 1967 “I feel like I’m fixing to die rag”: una canzone contro la guerra del Vietnam dove il testo oscuro e sprezzante esprime tutto il disgusto provato dagli artisti nei riguardi del conflitto.
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Musicalmente parlando, il brano ricorda una canzone ragtime degli anni Venti, al contrario, usa l’ironia per incoraggiare la belligeranza in Oriente invitando i genitori a spedire i figli al fronte cosicché possano essere i primi a tornare in scatola. Secondo la band sono il governo, i comandanti americani, le lobby delle armi e i capitalisti i veri colpevoli dell’assurda quantità di soldati caduti in Vietnam.
Gli stessi militari non sanno il perché stanno andando a morire e sembra nemmeno importargli, tuttavia il gruppo esorta le persone a chiedersi se gli Stati Uniti debbano o meno essere coinvolti in una guerra insensata.
“I feel like I’m fixing to die rag” non sarà stata apprezzata dai media, ma Woodstock l’accolse con grande entusiasmo sul suo palco.
“Fortunate son” – Creedence Clearwater Revival (1969)
Alla fine degli anni Sessanta, sempre più americani cominciavano a vedere la guerra in Vietnam come un terribile errore.
I Creedence Clearwater Revival, come protesta nei riguardi del conflitto vietnamita e dell’establishment politico americano di quegli anni, pubblicarono “Fortunate Son” nel 1969.
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In realtà, il brano è anche un inno della classe operaia la quale vedeva i suoi figli essere gettati al fronte a combattere un nemico sconosciuto. Da qui, il testo di Fogerty critica il sistema discriminatorio della leva: chi era privilegiato, e dunque un figlio fortunato d’America, era esentato dagli orrori che i figli sfortunati hanno dovuto vivere durante un servizio militare che non avevano scelto.
Le colpe dei padri ricadono sui figli, purtroppo i padri dei figli fortunati – senatori, milionari, etc. – hanno fatto ricadere le proprie colpe sui figli di chi non aveva invischiato il Paese nell’ennesima guerra.
“El niño del Vietnam” – José De Molina (1980)
La guerra in Vietnam è finita da cinque anni quando José De Molina pubblica “El niño del Vietnam”. Se finora abbiamo visto i soldati americani come anch’essi vittime del loro stesso governo, De Molina li chiama vili mercenari. La canzone comincia con un invito ai giovani statunitensi a rifiutare di combattere, ad opporsi a una leva che li avrebbe condotti soltanto alla morte. Dopodiché, il narratore, volge il proprio sguardo all’impatto che il conflitto ha avuto nei riguardi del popolo vietnamita.
È il pianto triste dei bambini soli / Che gli orfani lasciano i tuoi vili mercenari / Sono donne sole che vagano senza casa / Che ti implorino di fermare la strage.
Parole lontano, ma che risultano – purtroppo – sempre attuali.
(Bonus!) “Born in the U.S.A.” – Bruce Springsteen (1984)
A discapito di chi pensava che la canzone del The Boss fosse un inno patriottico, “Born in the U.S.A.” è in realtà un grido di protesta nei confronti di un governo che ha abbandonato i suoi veterani – e non solo. A quanto pare Reagen non colse la critica, tantomeno gli editorialisti conservatori Bernie Goldberg e George Will.
Questa, però, è un’altra storia che vi racconteremo nel prossimo articolo.