Le fotografie di Lee Friedlander (autore americano, nato nel 1934) sono volutamente inestetiche. Egli inaugura una visione melting pop della realtà, rigorosamente in bianco e nero.
Nei suoi scatti sembra indicare che tutto sgomita, si incastra, si sovrappone, e che ciò che ci circonda è un puzzle creativo, una mixata di elementi, fantasmatici e reali, che assume lo status di sostanza grumosa, spigolosa, stratificata, nonché estremamente sfuggente.
Cosa veda e pensi quest’uomo del mondo incuriosisce. Guardando a lungo le sue immagini, di una sconfinata dimensione americana, ci ritroviamo irretiti dai suoi recinti, dalle forme irregolari, dalle bisettrici che tagliano, incorniciano, tormentano come farebbe un chirurgo. Naturalmente c’è una sorta di malattia nell’atto di fotografare.
Si tratta di un appetito rapace e mai sazio di ritagliare brandelli della realtà per creare una paesaggio personale che obbedisca e disegni le proprie ossessioni. Persino chi fa reportage non può venire meno a questo istinto, non può esimersi dall’obbedire alla sua voce.
La macchina fotografica è dunque come la bacchetta del rabdomante che sente prima di vedere (o meglio, vede e sente nello stesso momento) perché orientato a captare le forme in termini di magnetismo. Arrivano molte perplessità davanti alle sue fotografie, una su tutte è cosa spinga a scattare immagini prive di bellezza formale, apparentemente senza fascino (che pure manifestano ad uno sguardo sensibile).
Ma la ragione è che una volta superato il primo straniante impatto si percepisce in queste opere un mormorio, un bisbiglio continuo che consiste nel rumore che la vita fa e che ci accompagna ininterrottamente. Allora forse è questa la segreta bellezza che Friedlander conosce, che ci avvince e in qualche modo si rende indimenticabile.
Clara Lunardelli (Onda Musicale)