Ciascuno di noi prova ad essere libero di esternare le proprie ossessioni, di dar sfogo ai motivi ricorrenti che governano la vita e inanellano la nostra storia,
ma l’artista possiede il privilegio di avere una chiave addestrata ad esprimere fatti concreti o impalpabili che sente gli stanno a cuore, che valuta degni o importanti e segnati da una certa qual forma di bellezza.
Jan Fabre, ecclettico autore nato ad Anversa nel 1958, è un abitatore del mondo, anche di quei territori che, secondo i più, nel mondo non esistono. Parlo della sconfinata e profondissima interiorità che filtra l’esistenza delle cose virandole più volte in infinite tinte fino a che ritiene, l’artista, di trovare loro l’abito giusto.
Il rosso in questo caso, di cui è vestito il protagonista di “Attends, attends, attends…pour mon père” in scena avantieri al Teatro Zandonai per l’apertura del Festival Oriente Occidente. Il rosso che disegna una fiamma nel buio del palcoscenico e nuvole di fumo che si gonfiano e risucchiano diventando mimesi della natura.
A definire la fibra vitale di cui è fatto questo spettacolo, la colonna sonora di Tom Tiest, ipnotica, incessante, che richiama l’immagine di un nervo percosso: un ritmo ctònio che batte cupo, energico, inesauribile, che subisce brevi arresti.
E come la musica si arresta l’attore ballerino Cedric Charron nei momenti in cui interloquisce con un padre silente e inavvicinabile (che gli dimora nell’animo) al quale spiega tutta la sua passione e meraviglia per il desiderio vitale che lo abita.
La storia di un legame affettivo e dialogico che nel suo svolgersi sgrana imitazione ed emancipazione, divergenza di valori, libertà e riconoscenza. Il figlio è esaltato e a tratti stremato dal suo ingresso nella vita, dalla sua crescita che contemporaneamente misura l’acquietarsi e il declino di quella del padre.
Padre anche come Legge-Coscienza-Dio-Mondo – peraltro questi ultimi regolati dai principi maschili dell’ordine, dell’obbedienza e dell’efficacia, dopo, come ricorda il figlio, aver messo a tacere il principio femminile che governava l’universo secondo tutt’altre leggi.
C’è in questo spettacolo tutta la forza che un assolo può dare. Un corpo che vive e attraversa con prorompenza le traiettorie del palcoscenico, capace di espandersi, prolungare filamenti, riavvolgere spire, contrarsi.
L’assolo porta con sé le metamorfosi possibili. L’as-solo è l’uomo. Un lungo, ripetuto applauso ha salutato l’opera del grande artista belga.
Clara Lunardelli – Onda Musicale