Cultura ed eventi

La grande guerra al Palazzo delle Albere e la lotta per arrivarci.

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Oggi vorrei scrivere di un’esperienza che ho vissuto ieri. So che non serve, ma noi umani facciamo anche quello che sappiamo essere inutile.

Siamo ostinati, ci incaponiamo intorno alle idee e agli ideali. Uno dei miei è la fiducia nel genere umano. Però oggi ho sentito che non serve a niente. Ho sentito che non dovremmo parlare di cultura come di qualcosa che riguarda solo i prodotti dell’intelletto di cui andare fieri, perché proclamarla ai quattro venti, in questo caso, è solo un rimedio all’alito cattivo.

Oggi la cultura mi cade dalle braccia come un bimbo abbandonato di cui tutti hanno compassione, ma che non trova consolazione e nutrimento nella casa di nessuno.

Il fatto è questo. Mi reco al Palazzo delle Albere con un mezzo attrezzato per il trasporto disabili, scendo in mezzo alla strada perché non c’è alternativa, proprio davanti all’ingresso. Voglio vedere “La guerra bianca”, mostra aperta fino al 13 novembre p.v. È una panoramica delle montagne scenario della prima guerra mondiale fotografate da Stefano Torrione, un progetto realizzato per il National Geographic Italia.

Sono decenni che chi usa la sedia a rotelle aspetta di poter visitare il palazzo che ora è accessibile. Finalmente, conquista a lungo agognata, si può entrare. La struttura si apre a tutti, come deve essere per un luogo che non neghi la sua natura (ehm, cultura).

Un cartello indica che l’ingresso non è più lì, ma sul lato opposto dell’edificio. Infatti, vedo che le rampe di accesso che un tempo permettevano di visitare solo il piano terra sono state rimosse. Mi sposto più avanti dove vedo un cancelletto chiuso, preceduto da un dislivello di qualche centimetro che immette lungo un sentiero in ghiaia, inizialmente in discesa. Non posso avvicinarmi per via del dislivello e percorrerlo sarebbe arduo. Sarà poi questo? Non vedo nessuna indicazione. Proseguo fino a giungere alle passerelle in legno che circondano le vasche d’acqua del Muse, le percorro intuendo che mi faranno avvicinare al palazzo, ma girato l’angolo mi fermo a ridosso di un gradino. Torno quindi indietro e mi avvio verso l’ingresso del Muse. Cerco di aprire le porte, ma sono pesantissime. Nonostante la folla, nessuno si avvicina per aiutarmi. Spingendo al limite delle forze, riesco ad entrare.

All’info-point chiedo se è possibile raggiungere il palazzo da lì e mi indicano altre porte, uguali alle precedenti, dalle quali uscire per incamminarsi  lungo una strada pavimentata in ghiaia, col primo  tratto in pendenza. Mi dirigo verso l’area aperta e percorro la strada con qualche difficoltà fino ad arrivare all’ultimo pezzo antistante il palazzo che però è pavimentato in ciottoli. La carrozzina si blocca ad ogni sasso che supero con piccoli, pericolosi saltelli e un impiego di forza non indifferente. Intanto comincio a sentire dolenzia alla spina dorsale. Penso se non sia meglio tornare indietro, ma a questo punto è come essere a metà cordata… Cerco allora di sbalzare sul prato a fianco che, umido, oppone resistenza. Dopo l’impresa, arrivo a ridosso delle porte. La signora alle informazioni scatta in piedi e mi viene incontro. Io non riesco che a sbuffare per la stanchezza e la furia che trattengo (lei non c’entra).

Vengo accompagnata all’ascensore la cui installazione è stata a lungo negata per tutelare il bene architettonico, ragione ora decaduta: i tempi cambiano, il modo di ragionare un po’ meno. Salgo e vedo per la prima volta le sale, le posso annusare, attraversare, godermele. Ecco, ora sono anch’io qui. Guardo le pareti affrescate. E poi le meravigliose ospiti di questa mostra: fotografie di grande formato, mirabili testimonianze di un folle esercizio del potere che ha massacrato milioni di uomini.

Le immagini restituiscono l’immane fatica di giovani soldati, tenuti e dimenticati lassù a combattere, a spararsi gli uni contro gli altri, a morire di pallottole e di gelo. Chiodi, scavi, scale, tunnel, fortini, feritoie e la montagna, maestoso “teatro” di guerra, un mare bianco fatto di roccia e neve, silente, che sopporta lo strazio e ne serba la memoria.

Scendo al piano terra e mi soffermo a guardare un’altra mostra fotografica “Profili invisibili” di Raffaele Merler, promossa dalla Provincia autonoma di Trento con l’obiettivo di “sensibilizzare le persone sull’importanza di essere individui, sul valore della vita e la gioia di viverla”. Già.

Prima di uscire chiedo alla signora se i lavori di restauro esterno sono finiti (non lo sa), se qualcuno può aiutarmi nel percorso di ritorno, ma è sola in tutto il palazzo e può farlo per il breve tratto dei ciottoli. Con qualche difficoltà lo superiamo e mi spiega che il sentiero preceduto dal cancelletto, da me visto prima, sarebbe il percorso di accesso per il pubblico. Osservo che sbocca anch’esso a ridosso dei ciottoli e che nel tratto finale presenta una pendenza trasversale del tutto fuori norma e impraticabile (da sommare al dislivello e alla mancanza di segnaletica iniziali).

Mi spingo lentamente verso il Muse. Squadre di bambini giocano con gli insegnanti nei prati. Li portano lì per fare e apprendere cultura. Faccio fatica, ma tutti mi ignorano. Persino due persone adulte che stanno un passo indietro, mentre spingo in salita, mi passano avanti indifferenti. Le fermo e chiedo un aiuto che ormai non serve più se non per aprire le durissime porte del Muse, sui cui vetri brilla il simbolo della carrozzina (come un’antica eco della stella di Davide). Do un’ultima occhiata alle passerelle in legno di Renzo Piano e mi chiedo perché questo antico, discreto materiale naturale non sia stato utilizzato per condurci più facilmente anche al palazzo delle Albere. Finalmente approdo sul volgare asfalto e schizzo via.

Ecco, è questa la cultura. Allora, per cortesia, come recitava un comandamento, non pronunciamo il nome di Cultura invano, chiudiamo le scuole e i luoghi dove si pratica o si cerca di insegnarla. E apriamo qualcos’altro, perché ci sono le grandi guerre e poi, consapevole dell’irriverente comparazione, ci sono le guerre minute, quelle che ogni individuo in difficoltà combatte, quelle che sono dovute al fallimento della cultura umana e tecnica, nonostante quest’ultima sia ribadita, reiterata continuamente. Guerre minute che sfibrano e portano alla rinuncia. Ora riposo il corpo che per fame di cultura ha messo in atto la sua lotta.

 

Clara Lunardelli – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Muse/Clara Lunardelli
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