Ama i ruoli da uomo misterioso. La sua vita, invece, è luminosa e felice. L’incontro con Sarah-Jane: lei interpretava Giulietta e lui Romeo. È andata a finire bene.
«David Bowie mi ha cambiato la vita. Mi ha fatto diventare quello che sono. È qualcosa che ho realizzato solo quando è morto. Non lo conoscevo di persona, l’ho visto in concerto un paio di volte. Non capivo perché la sua scomparsa mi avesse sconvolto in quel modo fino a quando mi sono rivisto adolescente, cresciuto in una famiglia in cui recitare non era un’opzione. Ho capito che è stato il suo esempio — la sua capacità di crearsi un mondo in cui potersi esprimere in libertà — a risvegliare la mia voglia di provarci».
Si fa fatica a intravedere nel Clive Owen cinquantaduenne il ragazzino di provincia — madre casalinga, patrigno ferroviere (il padre, musicista, se andò quando lui aveva tre anni) — che cambia colore di capelli per stare al passo con il suo mito. Ma si capisce che parla sul serio. D’altronde non è tipo da sprecare le parole. Le centellina, salvo infervorarsi quando gli argomenti gli stanno a cuore. Sostanzialmente sono quattro: le donne della sua vita, ovvero la moglie Sarah-Jane e le loro figlie, Eve e Hannah. Il suo lavoro di attore. Bowie, appunto. E il Liverpool. «Essere un padre per me vuol dire tutto, sono molto fortunato a avere una famiglia così bella».
Con Sarah-Jane Fenton si sono conosciuti alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra. Una messa in scena particolarmente sentita di Romeo e Giulietta di Shakespeare, ha fatto il resto. Lei adesso non recita più. «Una sua scelta».
Ma che, ne è consapevole, ha reso per lui le cose più facili. «La famiglia è la mia grande fortuna, importante per trovare equilibrio come attore. Il mio mestiere ti obbliga a viaggiare molto, ho imparato che per partire devi essere capace di tornare a casa e ricominciare la vita di tutti i giorni, come se fosse la cosa più importante».
Qualche sera fa, racconta «ero con le mie figlie a guardare il documentario su Amy Winehouse: bellissimo e tristissimo. Molto commovente, avrei voluto piangere». Non ama far trasparire le emozioni. Preferisce giocare di sottrazione. Per questo si è trovato bene con Paolo Sorrentino che l’ha diretto nel cortometraggio noir Killer in Red per la nuova campagna Campari. «È semplicemente uno dei migliori attori della sua generazione e appartiene alla meravigliosa tradizione di attori inglesi che grazie a talento e dedizione sono in grado di fare bene tutto», ha spiegato il regista di Youth e The Young Pope. Owen ringrazia. «Come i grandi creativi Paolo è sa bene cosa vuole e come fare per ottenerlo. Ci siamo intesi al volo, al di là della lingua. È un visionario che esalta la tradizione da cui proviene. Essere entrato nella sua famiglia artistica mi ha fatto venire voglia di girare di nuovo insieme. Un lungometraggio, questa volta».
Al successo è arrivato lentamente, Clive Owen: tanto teatro e tv in patria, poi coccolato dal cinema americano. Robert Altman, Antoine Fuqua, fino a Mike Nichols che con il Larry di Closer gli ha regalato uno di quei personaggi misteriosi e al limite della sgradevolezza che ama tanto. «Perché sono diversi da me e sono più divertenti di quelli positivi. Amo interpretare uomini misteriosi, anche il barman di Sorrentino lo è. Non sono un grande fan del bisogno di spiegare tutto, preferisco muovermi nel non detto. Non c’è sempre bisogno di sapere le cose per capirle».
Allo steso modo non ama la retorica legata al suo mestiere. «Mi sembra pretenzioso quando noi attori parliamo di metodo, però è vero che recitare richiede molta concentrazione. E a volte è difficile staccarsi da alcuni ruoli. Come il chirurgo tossico e fascinoso di The Knick, la serie diretta da Steven Soderbergh. «Mi ha messo in uno stato mentale e psicologico particolare». Poi ci sono ruoli, come il Theo di Children of men di Alfonso Cuarón che, a distanza di oltre dieci anni, gli restano dentro. E, da padre, lo fanno riflettere sul futuro.
«È un film di fantascienza ma in quel futuro siamo immersi già oggi». Ambientato nel 2027 in un’Inghilterra desolata e incattivita in piena crisi umanitaria per l’ondata di profughi e dove tutti sono contro tutti. «Tempo fa su Vulture , per ricordare il decennale dall’uscita, è apparso un articolo che sosteneva che fosse il film più attuale del 2016. È triste ammettere che quello che Alfonso raccontava assomiglia molto al nostro presente». La sua è la preoccupazione di tanti genitori: che futuro vivranno i nostri figli? Inutile chiedere cosa pensi della Brexit.
«Sono devastato da questa vicenda. Mi considero europeo, sono un tipo cosmopolita. Vorrei che le mei figlie potessero dire altrettanto». Ma non dispera. «In questo momento tutto è così istabile e precario, è un mondo che fa più paura di quando io ero giovane. Ma ho fiducia nei giovani, la speranza sono loro».
Anche uno dei film che ha in uscita, il thriller fantascientifico Anon dell’amico Andrew Niccol, gli ha offerto argomenti per riflettere. «Racconta di un mondo futuro senza più privacy per motivi di sicurezza, dove tutti siamo sempre controllati attraverso i cellulari. Stiamo tutti accettando volontariamente di essere meno liberi. Non mi sembra una buona cosa».
Lui si gode la sua privacy e la sua libertà, anche nelle scelte lavorative, grazie a cui, dopo quasi quindici anni è tornato in palcoscenico, a Broadway per Vecchi tempi di Harold Pinter. E in autunno farà un bis con una nuova pièce.
«Quello che dice Paolo sulla dedizione di noi attori inglesi nasce nelle scuole di teatro da cui quelli della mia generazione siamo usciti. Acquisti una disciplina che non dimentichi mai che ti fa affrontare con la stessa serietà tutto, un film, un corto, uno spot pubblicitario». Adesso, confessa, sogna una commedia.
«Facciamo un appello, mandatemi una buona sceneggiatura che faccia ridere e lo faccio». Manca solo il Liverpool. «Non c’è più tempo. Vorrà dire che la prossima volta parliamo old calcio».
(fonte: www.corriere.it – link)
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