«E Loursat, sempre da solo, ancora dignitoso, se ne stava seduto al tavolo di un bistrot, davanti a un bicchiere di vino rosso.» (G. Simenon, Gli intrusi).
Avete presente L’assenzio, il celebre dipinto del pittore impressionista Edgar Degas? Ebbene, l’avvocato Hector Loursat de Gli intrusi di Georges Simenon è la trasposizione, sia per contegno che per attitudine, dalla materia artistica a quella letteraria. Avviluppato nella morsa della sua solitudine, immerso nella sua biblioteca e sano bevitore, Loursat trascorre le sie giornate «rintanato nella sua tana», cioè il suo studio, emblema di ordine, misura e stabilità soggettivi.
«Ma non aveva amici, lui. Viveva da solo, esaltandosi per certe idee, per certi filosofi, per certi poeti. Che tutto il male derivasse da lì?»
Forse. O forse no. Da diciotto anni, da quando cioè la moglie l’ha abbandonato, l’avvocato conduce un’esistenza soporifera, non lasciandosi mai sorprendere, nei brevissimi istanti in cui s’incontra casualmente con qualcuno, in preda a un qualsivoglia sentimento di commozione, essendosi imposto «di fare il burbero».
Neppure con sua figlia Nicole riesce a costruire un rapporto, tanto che, pur vivendo sotto lo stesso tetto e condividendo, sia pure a malapena, uno spazio della casa, sono estranei l’uno all’altra.
Questo (stra)ordinario modus vivendi subisce una brusca quanto inaspettata inversione di marcia e la monotonia s’infrange contro la tempesta della routine quotidiana quando, una notte, nella sua immensa casa viene commesso un omicidio.
Le indagini e il successivo processo avvengono parallelamente all’esperimento sociale – per così dire – di Hector Loursat, ovvero “dell’uomo che voleva imparare a vivere”.
La simpatia per Émile Manu, sospettato dell’omicidio, lo porta a credere che il procuratore Rogissart stia seguendo una pista sbagliata e fuorviante, ragion per cui Loursat si rimbocca le maniche e si apre all’Altro, al mondo che fino a quel momento è stato per lui popolato da ombre di uomini, se non addirittura percepito come inesistente:
«Da giovane, era già tanto se si rendeva conto dell’esistenza di individui […] poveri e smaniosi, affetti da un disagio perenne. Si era mai veramente accorto di qualcosa? Viveva di sentimenti elevati […] e quando aveva amato, lo aveva fatto in modo assoluto […] Ma lui era vissuto in un mondo ideale, un mondo fatto di studio e di amore.»
Il primo impatto e il primo contatto con l’esterno gli danno la sensazione di vivere su due piani diversi, prendendo finalmente coscienza dell’abisso tra il passato con Geneviève e il presente piatto e paludoso.
La solitudine a cui si è votato, e che si scopre essere una sua prerogativa antecedente al matrimonio, da piacevole che era, diventa una condanna, con buona pace di Bukowski («E quando la mattina non ti sveglia nessuno, quando la sera non ti aspetta nessuno, e quando puoi fare quello che vuoi, come la chiami? Libertà o solitudine?»)
Un’intrusione e un omicidio, dunque, se da un lato fermano il mondo, dall’altro riportano Loursat in vita, dandogli il desiderio e la voglia di «gettarsi nel mucchio». È così che riscopre i colori e gli odori della città, dei cambiamenti sopraggiunti durante la sua assenza; ancora, si stupisce del movimento frenetico della gente e si chiede: «Perché sono vissuto come un orso per diciott’anni?»
Immediata la risposta: «La verità era che lui non aveva mai neppure tentato di vivere». Benché non sia estraneo alla società, Loursat ha bisogno di avere delle informazioni su come vivere con gli altri, come entrare in sintonia con gli altri, senza necessariamente creare con essi un legame solido e durevole.
In tal senso Emile Manu svolge un ruolo chiave, poiché è grazie a questo ragazzo che l’avvocato solitario scopre il modo per uscire dal tunnel: fare parte di un gruppo, ma curandosi di sé stesso.
Stare con gli altri senza tuttavia abbandonare sé stesso, perché, come osserva il sociologo Franco Ferrarrotti in Verso l’autoannientamento e la possibile rinascita, si può essere sé stessi a patto di avere un rapporto con gli altri. Identità e alterità sono correlative e il monologo deve diventare dialogo.
Riuscirà il nostro Loursat a restare sui binari e a non sprofondare nella solitudine?
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A cura di Antonietta Florio.