Gary Moore, al secolo Robert William Gary Moore, il chitarrista rock camaleonte per eccellenza; nel corso della sua lunga carriera (iniziata nei ’70 e continuata fino alla sua prematura morte avvenuta nel 2011), in tutti i generi e gli stili che ha affrontato, è sempre riuscito a ritagliarsi vaste porzioni di successo sia tra gli specialisti (i chitarristi) che di pubblico.
Seppur impegnato a confrontarsi con bravissimi chitarristi, Gary Moore è riuscito a emergere perché lui era una sorta di prototipo del potente chitarrista rock. Oltre a esprimere abbondantissima grinta e rapidità, sapeva maneggiare benissimo lo strumento, possedendo e usando ben oltre la norma due tecniche fondamentali: il bending (con la sinistra si tendono le corde innalzando l’intonazione) e il “tocco” (con la mano destra plettrare le note in modo tale da cavarne timbri e dinamiche peculiari nell’articolazione).about:blank
Questo gli permise negli anni ’70 di essere apprezzatissimo componente in gruppi hard rock (Thin Lizzy e Skid Row) e Jazz-Rock (Colosseum II di Jon Hiseman)
Dopo l’episodico “Grinding Stone” del ’73, cominciò un po’ più convintamente la propria carriera solista, pubblicando nell’autunno del ‘78 un rispettabilissimo disco: “Back on the Streets”. Moore in quel tempo si dibatteva bene tra episodi strumentali più impegnativi e pezzi hard-rock, tuttavia dopo il ciclone Van Halen, giunse ad abbracciare risolutivamente l’hard rock, e pubblicò una serie di buoni dischi per tutto il decennio degli ’80.
In seguito alla morte di Stevie Ray Vaughan, nei ’90, ci fu una specie di corsa verso il rock-blues e anche lui si cimentò: il disco “Still Got the Blues” fu un successo. Ne seguirono altri con coordinate simili…
Dopo ci fu una sbandata un po’ tecnologica (testimoniata dai dischi “A Different Beat” e “Scars”) con loop e campionamenti, andando un po’ appresso a colui che chitarristicamente stimava moltissimo: Jeff Beck; poi riprese i più tranquilli percorsi di rock-blues, con qualche piccola escursione…
Dunque Moore è stato un campione di ecletticità, e seppur non di originalità (e quindi di creatività), sicuramente di espressività, dimostrando in ogni occasione di essere efficientissimo, credibile, che si trattasse di una parte musicale più articolata o sequenza di rudi accordi, accelerazione neo classicheggiante o contorcimento bluesy.
Inoltre si distinse in una delle cose apparentemente più semplici, però meno frequentate dai chitarristi rock poiché molto insidiosa: la ballata melodica. Pochi sono i chitarristi rock a proprio agio quando c’è tanto tempo e spazio da governare; quando c’è il potere di assaporare una nota dopo l’altra.
Pochi quelli melodici e inventivi, che riescono a dosare l’afflusso di adrenalina giovanile, quella sportiva e ormonale che fa solo correre, saltare e strillare, ma che non permette di inventare estemporaneamente una bella e lunga storia e raccontarla. Lui sapeva fare anche questo.