“2112” va senza dubbio a posizionarsi tra i capolavori dei Rush, oltre che tra i grandi album del prog, e segna l’inizio vero e proprio del loro cammino verso il progressive rock.
Dopo gli inizi più rock di “Rush”, “Fly By Night” e “Careless of Steel”, il secondo vede l’ingresso in formazione del batterista e paroliere Neal Peart, “2112” si distingue per i testi Randiani e per le ritmiche e le melodie sempre più intricate e trascinanti.
Randiani perché la suite d’apertura iniziale, sette parti firmate da Peart che occupavano tutto il lato A del disco, è ispirato ad “Antifona” della scrittrice russa Ayn Rand.
Traccia attraverso la quale si sviluppa tutto il concept che permea l’album, album che viene marchiato a fuoco dall’ormai famoso uomo con pentacolo. Uomo disegnato da Hugh Syme, che partecipa con il suo mellotron nella suite iniziale ed in Tears, e che lo stesso Peart riporta sulla sua fida batteria.
A parte la prima suite dunque, tutte le altre canzoni non superano i quattro minuti, ma filano via che è un piacere. A parte un paio, che vedremo, tutte portano l’inconfondibile firma di Peart che si afferma come paroliere del trio canadese. Diamoci dunque un’occhiata:
2112: synth e mellotron spaziali, compreso quello di Syme, aprono le danze trasportando l’ascoltatore in un’atmosfera sospesa ed eterea, ma sono poi le chitarre in delay di Lifeson, la batteria forsennata di Peart e la voce di Lee che riportanoun po’ di equilibrio.
20 minuti di pura estasi progressiva in cui si può ammirare la grande capacità di paroliere di Peart. Le sette parti (Overture , The Temples of Syrinx , Discovery, Presentation, Oracle: The Dream, Soliloquy e Grand Finale) scorrono via che è una meraviglia tra stacchi prog, rock e acustici. La frase d’apertura poi è quanto di meglio ci si potrebbe aspettare per una suite che celebra gli scritti della Rand, “and the meek shall inherit the earth“.
A Passage to Bangokok: ritorno a sonorità più rock che si fondono con quelle più orientaleggianti per la descrizione di questo viaggio ai confini della percezione.
Da Bogotà, al Marocco, all’Afghanistan alla ricerca dell’estasi per un racconto autobiografico di Peart e soci. Non estranei all’uso di LSD o altre sostanze simili come si può chiaramente capire dal testo.
The Twilight Zone: rock e folk si mischiano perfettamente, come realtà e fantasia nel testo, anche grazie alla cantilena di Lee. Il testo e la melodia si fanno più inquietanti mano a mano che passano i secondi, interrotti solo dai riff dell’ispiratissimo Lifeson, ma c’è sempre una sorta di calma. Calma ed inquietante come il mare di notte che nasconde, al di sotto della superficie, chissà quali misteri e strane creature.
Lessons: brano più scanzonato, al pari della melodia, firmato da Lifeson la cui chitarra si fonde alla perfezione con i trascinanti giri di basso di Lee. Qui si respira un’aria decisamente più rilassata che si lascia cullare dai ricordi anche se c’è comunque una leggera malinconia di fondo.
Tears: ballad struggente firmata da Lee che, con la chitarra acustica ed il mellotron del grafico Hugh Syme, tratteggia il momento più commovente ed intimo di tutto il disco.
Something for Nothing: dietro la penna ritorna Peart che sforna questo pezzo potente in cui Lee lancia il suo disprezzo verso gli sprechi di tempo ed energia.
“You don’t get something for nothing/You don’t get freedom for free/You won’t get wise/With the sleep still in your eyes/No matter what your dreams might be”queste alcune delle parole più ispiratrici per un testo che, nonostante sia stato scritto anni fa, è ancora attuale al giorno d’oggi.
Giudizio sintetico: un capolavoro ineguagliabile e tappa obbligata per i fan della band e del prog in generale
Copertina: un pentacolo rosso sotto gli infiniti spazi dell’Universo con il logo della band ed il titolo in bella mostra
Etichetta: Anthem
Line up: Geddy Lee (voce e basso), Alex Lifeson (chitarre) e Neil Peart (batteria e percussioni)
Vanni Versini – Onda Musicale
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