Musica

Måneskin: e se fossero la voce ribelle dei giovani italiani?

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La rock band italiana dei Maneskin

Quattro ragazzi, poco più che ventenni. Hanno disseminato rock a forma di Stivale per le strade di Roma, partendo da Monteverde. 

Buskers veri: coi soldi guadagnati provavano a registrare i primi dischi e a partecipare ai concorsi canori studenteschi

Un barlume di poesia è sedimentato nell’etimologia del nome creativo: Måneskin, dal danese (‘chiaro di luna’), la lingua di Jeanett, madre della fondatrice, Victoria De Angelis – che ritrova nell’immagine naturalistica, sublimata, la luce della genitrice, scomparsa prematuramente. Quattro ragazzi italiani: conquistano gli emisferi: quaranta milioni di album venduti, quattro miliardi di stream. L’ultima fatica discografica, Rush! (Sony Music, 2023), è nelle classifiche di trentacinque Paesi. Il tour mondiale, Loud Kids Tour Gets Louder, partito dal Coachella Festival in California, conta ottantanove date in ventinove nazioni di quattro continenti (Europa, Americhe, Asia).

Quattro ragazzi cresciuti tra la scuola media del Gianicolo, il Liceo Scientifico J. F. Kennedy, e il Liceo Linguistico Montale

Che ritrovano le loro facce sul Billboard Spotify di Times Quare, a New York. Victoria – detta Vic – è la bassista, ispirata da Kim Gordon, omologa dei Sonic Youth. Thomas Raggi, il chitarrista cofondatore, è soprannominato Er cobra: alterna sul palco la Gibson Sg, alla Fender Stratocaster, senza dimenticare la sua preferita, la Fender Squier Japan del 1983 – in emulazione di Jimmy Page. A chiudere il sodalizio, Ethan Torchio, batterista con proiettili di petali tra le bacchette, figlio di un regista cinematografico, e Damiano David, un po’ crooner carismatico, un po’ rocker alla Steven Tyler, che da bambino ha girato il mondo insieme a mamma e papà, assistenti di volo Alitalia

Il linguaggio dell’abbigliamento

I Måneskin si sono formati a X Factor 2017, sfiorando la vittoria, sotto la guida di uno dei massimi esponenti del rock italiano, Manuel Agnelli. In loro il codice extralinguistico comunica parallelamente al linguaggio musicale: la vestemica è la manifestazione visiva del sound dirompente e dei testi intrepidi. Il cosmopolitismo della band incontra il gender fluid lasciando una scia semiotica: i generi binari si mescolano, tra smalto sulle unghie, occhi truccati, tacchi a spillo, calze a rete, giarrettiere, latex, borchie o topless con due strisce di nastro a coprire i capezzoli. Oppure tute trasparenti, shorts, smoking, giacche e cravatte. Scelte stilistiche inafferrabili, che però intendono lanciare un messaggio chiaro: ognuno deve esprimere sé stesso nel modo che sente profondamente, volendo bene alla propria fisicità, senza paura del giudizio altrui.

Damiano, quando canta a torso nudo, espone un tatuaggio che è il senso intrinseco dell’arte dei Måneskin:

Il ballo della vita, titolo dell’album d’esordio (Sony Music/ RCA Records, 2018). Concetto spiegato da Victoria, applicabile come un mantra dall’ascoltare: «Il ballo è l’atto che avvicina le persone, le libera, fa perdere le sovrastrutture per lasciare uscire la parte più spontanea di noi […] Significa una celebrazione della giovinezza, della libertà» (in Cortassa, Rotlich 2022, p. 25).

Il ballo dei quattro ragazzi romani li ha portati a registrare in studio, il 2 agosto 2021, una versione di I Wanna Be Your Slave assieme al padrino del punk, Iggy Pop – collaborazione pubblicata con un 45 giri da 750 copie esclusive. Sempre il ballo gli ha donato il palco dell’Allegiant Stadium, a Las Vegas, il 6 novembre 2021, con una playlist di mezz’ora all’apertura del concerto dei Rolling Stones. Tra le esibizioni interminabili per le strade della città eterna e il giro completo del globo, pulsano al centro due eventi chiave: il Festival di Sanremo e l’Eurovision Song Contest. Il tutto sulle note che cambiano la storia della musica italiana: quelle di Zitti e buoni, genesi del rock popolare.  

La Volare del Duemila: Zitti e buoni

Zitti e buoni, singolo trainante del secondo album della band, Teatro d’ira – Vol. I (Sony Music/ RCA Records, 2021), è la canzone manifesto di tutti i giovani italiani emarginati nel nostro Paese e vituperati all’estero. Vincitrice della settantunesima edizione del Festival di Sanremo e della sessantacinquesima edizione dell’Eurovision Song Contest, a Rotterdam, s’impone come uno dei prodotti nostrani più apprezzati dalle Americhe al Giappone. Un canto liberatorio, colloquiale, alla conquista dell’autodeterminazione, del proprio spazio nella storia, con una brulicante dose di spregiudicatezza: «Scusami ma ci credo tanto / che posso fare questo salto / e anche se la strada è in salita/ per questo ora mi sto allenando».

La ricerca del senso del tempo, per afferrare l’archè e sfuggire all’oblio. Le ali di Icaro, incollate da un Dedalo contemporaneo al ragazzo in fermento: scappare dal labirinto del Minotauro – la società delle ingiustizie. La sana follia, invocata con l’intento di prendere le distanze da chi intende sopprimere il futuro degli adulti di domani: 

«Ma se trovi il senso del tempo risalirai dal tuo oblio / e non c’è vento che fermi la naturale potenza/ dal punto giusto di vista, del vento senti l’ebrezza / con ali in cera alla schiena ricercherò quell’altezza / se vuoi fermarmi ritenta, prova a tagliarmi la testa perché / sono fuori di testa, ma diverso da loro»

Che lingua parla Zitti e buoni

Francesco Ciabattoni, professore ordinario di Letteratura Italiana della Georgetown University di Washington, nonché direttore del progetto TheItalianSong.com, osserva le peculiarità del lessico di Zitti e buoni, riflettendo sul successo internazionale del sodalizio, «senza precedenti nella storia del rock o del pop italiano»:

Il registro linguistico si distingue soprattutto per le forti variazioni diafasiche e diastratiche […] linguaggio giovanile (fra’, siga, fuori di testa), colloquialismi spinti (mo’ li prendo a calci ‘sti portoni), turpiloquio (Vi conviene toccarvi i coglioni, non sa di che cazzo parla). Ma in generale, al loro terzo album, la band romana sperimenta generi e stili diversi e sarebbe limitativo attribuire loro etichette […] Così l’America guarda un po’ all’Italia e alla musica italiana anche attraverso i Måneskin. Sarà forse proprio perché la band romana si nutre essenzialmente di musica americana e ha un sound americano, e dunque globale, che non desta sorprese nel pubblico d’oltreoceano?» (Ciabattoni 2023).

Enrico Melozzi, direttore d’orchestra dei Måneskin a Sanremo, compositore insignito del “fellow of the London College of Music”, spiega le capacità comunicative e la portata sociale del brano nel momento più delicato del nuovo millennio:

Il loro linguaggio è diretto, risoluto, deciso. Nel festival del 2021, senza pubblico in presenza, che aveva addosso le cicatrici della pandemia, Zitti e buoni rappresentava un’esplosione collettiva: ha dato la sensazione di ribaltare la scacchiera degli eventi, con un cambio radicale di stile. La gente sentiva ogni giorno dai media che la normalità e la libertà sarebbero tornate lentamente: in poco più di tre minuti il brano ha colmato l’attesa.”*

A livello strutturale, il testo porta delle innovazioni dal respiro internazionale nel panorama sanremese

Lo fa attraverso un’ibridazione dinamica, la prosodia glam rock raggiunge l’hard rock, portando la vocalità graffiante del frontman a divenire metal tra i versi più sentiti, per trasformarsi poi in extrabeat nella parte centrale. In particolare, Melozzi pone l’attenzione sull’incedere delle strofe, rilevando nella sesta parte, lo special, una strategia stilistica da nenia, ricorrente tra i flow rap più recenti («Parla, la gente purtroppo parla / non sa di che cosa parla / tu portami dove sto a galla / che qui mi manca l’aria»).

La parola parla in epanadiplosi crea l’effetto anaforico con la ripetizione nei versi successivi:

La forza espressiva è nella forma che diventa sostanza. Troviamo una struttura testuale innovativa per la musica italiana e per il rock stesso. Le strofe crescono gradualmente di monotòni, arpeggiando, come in un pezzo rap. La seconda strofa, preannunciata dal ritornello, è il doppio della prima come velocità. Ritroviamo poi lo special, cullato dai violini, che si trasforma in una nenia o una filastrocca con la reiterazione della parola parla. Il ritornello finale vede solo la presenza della batteria e della voce, elevando due elementi chiave del genere. Nel linguaggio dei Måneskin l’espressione stilistica diventa determinante: i ragazzi hanno creato un capolavoro inconscio, spontaneo, e il successo del brano non è decodificabile, ma spiegabile con l’impeto, l’entusiasmo, il talento, lo studio che mettono nella scrittura.”*

Il direttore d’orchestra confessa la sensazione percepita all’ascolto aurorale del pezzo, rievocando l’idea che ha portato alla costruzione della partitura, dalla complessità esemplare, che rimanda a Stravinsky:

Dopo aver ascoltato la canzone per la prima volta, ho contattato il produttore, Fabrizio Ferraguzzo, e gli ho detto con soddisfazione che mi ricordava Be Quick Or Be Dead degli Iron Maiden. Il linguaggio matrice è il rock con un rift di chitarra e una ritmica swing. La partitura che abbiamo composto è complessa, senza precedenti nella storia di Sanremo: è un’orgia di strumenti, come nella Sagra della primavera di Stravinsky. Le orchestrazioni emulano una grande festa pagana. Pillole di bellezza che cerchiamo di portare sul palco dell’Ariston come un Cavallo di Troia»*

Massimo Cotto – giornalista musicale e conduttore radiofonico, una delle colonne portanti di Virgin Radio – si esprime sull’identità di Zitti e buoni, mettendo in luce le qualità della band:

Uno di quei brani che vale anche per quello che rappresenta e non solo per quel che è. C’è tutto il mappamondo del rock dentro: la ribellione, la libertà, l’orgoglio di essere diversi. Questi ragazzi hanno personalità e carisma. Damiano ha una grande voce. Sono credibili, anche se molti dicono il contrario»**.

«Voglio il mio riscatto»

I Måneskin innescano un dialogo terapeutico coi ventenni d’oggi, raccontando la loro esperienze in chiaroscuro e facendosi portavoce dei timori riecheggianti nella scalata di formazione. L’ascolto diventa una seduta di gruppo: cammino doloroso immerso in due brani: Il nome del padre e Vent’anni.

Nel primo serpeggia come un leitmotiv la formula ternaria, pilastro della morale cattolica, in nome del Padre, del Figlio, dello Spirito santo, con la quale ogni ragazzo italiano si ritrova a dover fare i conti nel percorso pedagogico.

 Ho messo pesi sulla schiena e poi sono caduto / ho perso sangue dal naso e mi sono rialzato / però a vent’anni già mi chiedo se son troppo stanco / se quello che mi serve è quello che ho desiderato / se un giorno riuscirò davvero ad esser realizzato / e sono spaventato.”

Le domande più urgenti, poste dal canto di Damiano, sono la didascalia acuminata dell’esistenza di ogni giovane alla costante ricerca della propria dimensione, sofferta – nel Bel Paese. Tra voli pindarici e cadute fragorose, lacrime e sangue che costellano il cammino, i protagonisti cantati non sono mai domi e affrontano con tempra da leoni le difficoltà, non lesinando l’iperbole nelle loro vite: «Toccare il cielo e ritornare a mangiare l’asfalto / a volte ho pianto, ma non è questo che mi ferma / voglio il mio riscatto».

I Måneskin vogliono essere la colonna sonora della Generazione Z, obiettivo focalizzato pubblicamente da Damiano:

Voglio essere la voce della mia generazione. Ci hanno sempre detto che noi siamo quelli sfaticati, che non abbiamo voglia di fare niente. Ma io vedo tanti ragazzi che si impegnano […] Vorremmo mettere questo nostro dono al servizio degli altri. Facendo musica e dicendo che tutti hanno la libertà di essere come sono.” (in De Rossi 2022, pp. 92-93).

Nel secondo brano, Vent’anni, la band scrive una lettera hic et nunc ai ventenni, rilevando in prima persona la necessità di saper fare autocritica e imparare dai propri errori, seppur un ragazzo debba essere libero di poter sbagliare:

Ma c’ho solo vent’anni / e già chiedo perdono per gli sbagli che ho commesso.”

Al culmine emozionale del corpus, gli autori si rivolgono direttamente agli ascoltatori, riflettendo insieme sulle dicotomie, i bivi, che si frappongono sul cammino terreno: «Scegli le cose che son davvero importanti / scegli amore o diamanti, demoni o santi / e sarai pronto per lottare, oppure andrai via / e darai la colpa agli altri o la colpa sarà tua / correrai diretto al sole oppure verso il buio / sarai pronto per lottare, per cercare sempre la libertà / e andare un passo più avanti, essere sempre vero / spiegare cos’è il colore a chi vede bianco e nero».

Essere autentico, difendere le differenze dalle polarizzazioni imposte dai benpensanti – ‘buono o cattivo’, ‘normale o trasgressivo’. Essere sé stessi, raggiungere l’originalità per affermare la propria diversità, come principio esistenziale:

«C’hai vent’anni / Ti sto scrivendo adesso prima che sia troppo tardi /
e farà male il dubbio di non essere nessuno / sarai qualcuno se resterai diverso dagli altri»

I quattro ragazzi romani sono in prima linea per la difesa dei diritti civili in Italia. Partecipano a manifestazioni delle comunità LGBTQIA + e il 14 novembre 2021, a Budapest, dopo aver conquistato la statuetta come miglior gruppo negli MTV Europe Music Awards, hanno risposto al senatore leghista Simone Pillon, denunciando la bocciatura del Decreto Zan (proprio nella terra di Viktor Orbán):

Possiamo andare fieri del nostro Paese per i risultati raggiunti non soltanto da noi, ma da tanti sportivi e personaggi della cultura che quest’anno hanno vinto ovunque. Peccato però per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro, e invece sarebbe stata quella la vittoria più importante.” (in Cortassa, Rotlich 2022, p. 34).

Le muse e l’inganno

Fin dagli esordi, una musa ha sempre percorso parallelamente le tracce degli album, personificando la creatività e la libertà d’espressione del sodalizio, che ha le sembianze di un amore vero – pertanto mai sbagliato, al di là della forma. La prima donna-simbolo è Marlena, omaggiata coi brani Morirò da re Torna a casa, quest’ultimo tormentone italiano del 2018, secondo Massimo Cotto dal «bellissimo testo», talvolta sottovalutato dalla critica: «L’avesse scritto un cantautore avrebbero gridato tutti al miracolo»**.

«Ero in bilico tra l’essere vittima, essere giudice / era un brivido che porta la luce dentro le tenebre / e ti libera da queste catene splendenti, lucide/ ed il dubbio o no, se fossero morti oppure rinascite».

Uno dei brani più recenti, scritto con uno stile cantautorale, che rimanda ai poeti in musica degli anni Settanta tra Genova e Bologna, è Coraline, l’ultima musa

Una carezza sonora alle donne vittime di violenza di genere, che devono sormontare ogni giorno cocenti difficoltà. In uno scenario che ricorda il ciclo arturiano, ‘la guerriera dal cuore zelante’, così ligia al dovere e ‘bella come il sole’, racchiude in sé i tumulti interiori di tutti coloro che annegano in crisi di panico paralizzanti: «La gente dirà, “Non vale niente” / non riesce neanche a uscire da una misera porta / ma un giorno, una volta, lei ci riuscirà / Coraline ha l’ansia / Coraline vuole il mare ma ha paura dell’acqua / e forse il mare è dentro di lei / e ogni parola è un’ascia / un taglio sulla schiena».

La forza di rinascere, sommersa nella metafora del mare, è custodita dalla protagonista dentro, ma non lo so: deve trovarla, per sfuggire a parole come asce. Il narratore onnisciente nel testo cita ‘un castello da raggiungere’ con mura invalicabili, dove il nemico invisibile – il fruscio del giudizio della gente – non può raggiungere la protagonista: è l’equilibrio psichico che la guerriera deve conquistare per abbracciare la vita. Coraline non ha conosciuto la purezza del sentimento più nobile: è cresciuta sotto il comando di un padre efferato, ha perso il bambino che portava in grembo da una relazione non voluta. Nella strofa centrale, a sussurrargli parole delicate arriva il suo Tristano, elevandola a Isotta, pronto a trasformarsi nei simboli valorosi dell’epoca carolingia per difenderla: «Sarò vessillo, scudo/ o la tua spada d’argento».

La band spiega all’unisono il senso dell’encomio alla propria musa:

È la nostra fiaba, il racconto metaforica di una bambina prodigio che non trova il suo spazio nel mondo perché troppo pura e fragile.” (in De Rossi, p. 149)

Tra i temi più sentiti nel canzoniere dei quattro ragazzi romani, non ritroviamo solo le muse: squarcia lo spartito l’inganno, istillato nelle sinapsi dal rapporto col successo. In Mark Chapman, i Måneskin descrivono il parossismo di alcuni fan nei confronti dell’idolo, citando il killer per antonomasia di una rockstar: quello di John Lennon. Otto dicembre 1980, ingresso del Dakota Building, New York, Mark Chapman attende Lennon per un autografo, freddandolo poi con quattro colpi di calibro 38. A parlare tra i versi sembra proprio il cantautore di Liverpool, anima dei The Beatles, al quale Damiano presta la voce con una prosopopea tambureggiante, per esorcizzare la similitudine del persecutore, la materializzazione dell’incubo.

Nascosto fra la gente / senza un’identità / dice che mi ama ma lo so che mente / si muove a piede libero /
vestito come un incubo / vuole tu sia in pericolo / però ti chiama idolo”

Scrivere la storia con coraggio e poliedricità

I quattro ragazzi di Monteverde sono tra i pochi artisti italiani mainstream a diffondere un repertorio bilingue (italiano, inglese), oltre ad essere tutti coinvolti nell’edificazione dei testi e della composizione musicale. Il sound rinverdisce i fasti del rock degli anni Settanta, sperimentando contaminazioni che spaziano tra metal, raggamuffin, soul, funk, hip hop.

Sono capaci di imprimere nell’immaginario collettivo la ballata pop, passando da cover trasversali – da Beggin’ dei Madcon (attraverso la lezione di Frankie Valli e The Four Seasons, naturalmente) alla sofisticata Amandoti dei CCCP, pietra miliare del punk italiano – fino ad onorare il dio del rock con pezzi come Gasoline e I Wanna Be Your Slave. Non mancano brani che fanno satira sulla società contemporanea e sugli stereotipi nel nostro Paese come Bla bla bla – onomatopea contro il perfido cicaleccio – e Mamma mia, espressione polirematica utilizzata nel mondo in richiamo all’italianità (con vizi e virtù). Nelle radio estere e dello Stivale scorrono ogni giorno le loro hits intrise di rock d’ultima generazione, popolare: SupermodelGossipThe LoneliestBaby Said.      

Per Massimo Cotto, si tratta di una via stilistica originale, che incrocia il sound con radici piantate a Woodstock, ma vira verso una propria direzione:

Più che di un rinnovamento parlerei di una via dei Måneskin al rock. Contrariamente a quello che è successo negli anni Ottanta a Firenze attorno all’Ira (Litfiba e Diaframma in primis) e negli anni Novanta (Afterhours, Marlene e La Crus in primis), non credo che il loro rock possa fare scuola, però fa bene al Movimento, nel senso che molti gruppi nasceranno, cresceranno e si moltiplicheranno – e anche in radio hanno capito che le chitarre non sono da buttare. Grazie ai Måneskin la base del rock italiano sa che ce la può fare. Finalmente siamo sulla cartina geografica. Ci sarà sicuramente alle spalle una bella macchina di marketing e strategia, ma il marketing non fa vendere dischi in tutto il mondo. Al mondo del rock questi ragazzi romani piacciono. Che proprio noi italiani abbiamo dei dubbi dimostra ancora una volta la nostra miopia. Devono solo fare attenzione a non esagerare, a non far prevalere la forma e gli atteggiamenti sul contenuto.”**

Il sodalizio, che dà voce alla rivalsa dei giovani d’Italia, rinnovando il linguaggio musicale – mediamente ancorato al porto di Sanremo –, ha attirato critiche feroci da parte di riviste come Rolling Stones e The Atlantic e di professionisti del settore come il violinista Uto Ughi (Cfr. Ciabattoni 2023)

A rispondere ai puristi della canzone con tinte tricolori ci pensa Manuel Agnelli, una delle icone più autorevoli del panorama canoro nazionale: «Sono orgogliosissimo di questi ragazzi che hanno saputo crescere e andarsi a prendere quello che gli spettava con coraggio, naturalezza, sincerità e tantissima passione. Ha vinto il festival una band di rock ‘n’ roll, che significa che ha vinto il festival chi non si è adattato al festival, chi ha rivendicato la propria personalità musicale e non. Chi ha cercato di essere diverso. Certo ci vuole un talento grande come il loro per riuscirci. Ma quando questo talento c’è, e in loro c’è, bisogna difenderlo e onorarlo, portargli rispetto e mostrarlo con orgoglio» (in De Rossi 2022, p. 152).

I Måneskin, la metafora più impetuosa di quei talenti italiani osteggiati dal loro Paese – ne contiamo a migliaia, inesorabilmente. Nel loro caso, la locuzione nemo propheta in patria non regge: si stanno prendendo tutto, dentro e fuori i confini. Il ricambio generazionale, culturale: un fiero monito per gli altri giovani in attesa: pronti, determinati, mai più zitti e buoni 

Bibliografia e articoli citati nel testo

Ciabattoni 2023 = Francesco C., Voce sui Måneskin in The Italian Songhttps://theitaliansong.com/it/singers/maneskin-3/

Cortassa, Rothlich 2022 = Måneskin – Il rock siamo noi, a cura di Guia C. e Sara R., Centauria, Milano, 2022.

De Rossi 2022 = Patrizia D. R., Måneskin – Italian rock 2.0, fenomenologia del gruppo che ha conquistato il mondo, Diakros, Reggio Emilia, 2022.

[per i testi delle canzoni] This is Måneskin – Venti testi e accordi, a cura di Alberto Moreschini e Michele Gentilini, Sony Music Publishing / Hal Leonard Europe, 2021.

Interviste citate nel testo:
  • * Intervista a Enrico Melozzi del 14 aprile 2023.
  • ** Intervista a Massimo Cotto del 20 aprile 2023.

(articolo di Annibale Gagliani – treccani.it)

— Onda Musicale

Tags: John Lennon/The Rolling Stones/The Beatles/Jimmy Page/Mark David Chapman/Maneskin
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