In primo pianoMusica

Bob Dylan,”Hurricane” e la storia di un’ingiustizia

È il 1976 e Bob Dylan pubblica un brano che farà parlare molto di un pugile che sembrava spacciato. “Hurricane” è la storia di Rubin Carter e di come la (in)giustizia abbia agito su di lui.

Pistol shots ring out in the barroom night/Enter Patty Valentine from the upper hall./She sees the bartender in a pool of blood,/Cries out, “My God, they killed them all!”/Here comes the story of the Hurricane,/The man the authorities came to blame/For somethin’ that he never done./Put in a prison cell, but one time he could-a been/The champion of the world.

Un colpo di pistola, poi un altro e un altro ancora.

Sono le 2:30 del 17 giugno del 1966 e ci troviamo all’interno del Lafayette Bar & Grill di Paterson, New Jersey. È un bar come un altro, all’angolo tra due vie. All’interno un bancone, diversi tavoli e quattro persone ricoperte di sangue. Al di fuori del bar, un uomo, Alfred Bello, corre allontanandosi, mentre poco distante si sente lo stridio delle ruote di una macchina. Ma non sono soli.

Poco sopra il bar, una donna vede due afroamericani salire su una macchina e, lì vicino, un uomo vede Bello scappare e sente le ruote stridere sull’asfalto. La storia, che sembra l’ennesima rapina finita male, fa il giro degli Stati Uniti perché agli arresti, insieme a John Artis, ci finisce Rubin “Hurricane” Carter, uno dei più promettenti pesi medi degli anni ’60.

Una canzone politica

Bob Dylan, nel giugno del 1966, pubblica uno dei suoi più grandi capolavori, “Blonde On Blonde”. La svolta elettrica è arrivata l’anno precedente e ormai nessuno si lamenta più. Complice, sicuramente, l’altissima qualità della musica del menestrello di Duluth che, nonostante sia stato trattato miseramente per il suo tradimento ai danni del folk più puro, riesce a farsi apprezzare da un pubblico sempre più ampio.

Pochi giorni prima dell’uscita di “Blonde On Blonde”, Rubin Carter viene accusato di aver ammazzato a colpi di pistola tre persone all’interno di un bar. Per lui, invece, la strada verso il titolo mondiale dei pesi medi diventa un burrone da cui uscirà solo dopo vent’anni.

Dylan ha scritto, nella sua autobiografia del 2004:

non ho mai scritto una canzone politica. Le canzoni non possono cambiare il mondo”

Ma nel 1976, evidentemente, ci ripensa e produce uno dei suoi più grandi capolavori. “Hurricane” è una ballata e parla dell’ingiustizia subita da Rubin “Hurricane” Carter che, dopo dieci anni passati in prigione per un delitto non commesso, subisce una nuova condanna all’ergastolo. Le prove a suo favore sono numerose, tra cui il fatto importantissimo di non essere stato riconosciuto come l’omicida dall’unica superstite della vicenda. Eppure è ancora dentro la prigione di stato del New Jersey.

Un pugile come pochi

Rubin “Hurricane” Carter nasce a Clifton, nel New Jersey, nel 1937. Figlio di una coppia prolifica (aveva sei fratelli), Rubin è un ragazzo difficile e fin dall’adolescenza mostra un certo rapporto con la giustizia che, a causa di aggressioni e piccoli furti, lo metterà in riformatorio.

Ma lui è cresciuto in un ambiente difficile e difficilmente lo puoi tenere in gabbia. All’età di 17 anni scappa dal riformatorio e nel 1954 si arruola nell’esercito. Viene inviato in Germania (come Elvis, tra l’altro) dove inizia a conoscere la boxe. Ma il suo problema è l’autorità e neanche l’esercito può farci nulla.

Passa molto tempo davanti alla corte marziale per insubordinazione, fino a quando, nel 1956, l’esercito non lo rimanda a casa perché “inadatto”. Torna nel New Jersey ma i suoi problemi non finiscono. Deve passare dieci mesi in carcere per essere scappato dal riformatorio, cui si aggiungono altri quattro anni per furti, rapine e aggressioni. In prigione riprende a boxare e, nel 1961, quando finalmente esce dal carcere, diventa un professionista.

Aveva il phisique du role: testa rasata, baffetti, alto 1,73 e corporatura possente. Li metteva tutti al tappeto. Nel 1963 combattè sei volte. L’ultima contro il campione del mondo dei pesi medi Emile Griffith, battendolo per KO in un solo round.

Hurricane è una vera belva. Perde per un soffio il titolo di campione del mondo, ma la sua carriera non si ferma per questo. L’accusa di omicidio di tre persone è una spada di Damocle pesante, soprattutto se sei nero negli Stati Uniti degli anni ’60.

La giuria non ci mette molto a condannare lui e il suo amico John Artis, anche se le testimonianze li metterebbero fuori dalla vicenda. Invece si beccano tre ergastoli.

Quanti processi prima di capire la verità?

Dopo dieci anni di carcere ci fu un nuovo processo, ma di nuovo i due vennero condannati al carcere a vita. Dylan, sempre attento al mondo che lo circonda, prende subito una penna e la chitarra e inizia a scrivere un brano. Lo aiuta Jacques Levy, un amico regista e psicanalista, che sta girando insieme a Dylan nel suo mega tour Rolling Thunder Revue.

La canzone parte dal presupposto che Hurricane sia innocente. Lo dice fin da subito, nel primo ritornello. Il fatto è che proprio grazie a questa canzone, l’opinione pubblica cambia faccia e Rubin Carter diventa una vittima del sistema. Anzi, Rubin Carter ottiene lo status di vittima sacrificale di un sistema che, con troppa facilità, prende l’uomo afroamericano e lo mette sul patibolo senza porsi troppe domande: è molto più facile.

Nel 1985 la corte federale, finalmente, sentenzia la liberazione di Carter e Artis perché il processo non è stato equo e, soprattutto, l’accusa “basata su motivazioni razziali”. Dylan ha di nuovo fatto centro. Non solo la sua musica accompagna le marce per la pace e per i diritti delle persone di tutto il mondo, ma le libera – letteralmente – anche dal carcere.

— Onda Musicale

Tags: Bob Dylan
Sponsorizzato
Leggi anche
Si intitola “Sei la fine del mondo” il nuovo singolo di Anto Paga
Siriana il nuovo singolo è “Il nostro tempo” feat. Pierpaolo Capovilla