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Stand Up, come i Jethro Tull raggiunsero il grande successo

La bellissima copertina di Stand Up

Stand Up è l’album che per primo fa assaporare il successo ai Jethro Tull, una delle formazioni cult del rock degli anni d’oro. Il disco è anche un esempio di come la tecnica spesso non sia l’unico ingrediente per fare bingo.

Esemplare è la storia di Stand Up, in questo senso, e in particolare quella dell’ingresso in formazione di Martin Barre. Il chitarrista, che diverrà negli anni una colonna portante della band, alla fine del 1968 è poco più di un giovane dilettante, dalla tecnica acerba, che suona nei Motivation, una band minore.

I Jethro Tull stessi, peraltro, hanno pubblicato il sorprendente This Was, lavoro sospeso tra il canonico British Blues che va per la maggiore e qualche ambizione eccentrica. Peculiarità del complesso è il flauto di Ian Anderson, istrionico showman sul palco e giovane reazionario fuori, restio a mischiarsi con la libertaria cultura hippie che impazza nel rock. Pochi sanno, però, che agli albori dei Jethro Tull, la leadership di Ian non è così chiara.

Mick Abrahams è il chitarrista e seconda voce della prima incarnazione del gruppo. Mick ha una tecnica improntata al blues eccezionale, ampiamente superiore a quel tempo a quella di Barre. Pur non vantando la presenza scenica di Anderson, Abrahams coltiva ambizioni da frontman. In quegli anni, del resto, il chitarrista è la figura centrale di tutte le band rock. Clapton è leader dei Cream, Jeff Beck ha il suo gruppo e Jimmy Page è il vero deus ex machina dei Led Zeppelin.

Mick, che ha anche una bella voce, vorrebbe quindi il ruolo di leader o, perlomeno, giocarsela alla pari con Ian. Dove si è mai vista una band rock col frontman che suona il flauto, sospeso su una gamba come la gru di Chichibio nella celebre novella del Decameron?

A quel punto iniziano i contrasti.
Mick vorrebbe spostare il sound, tirando acqua al suo mulino, ancora più verso lidi blues; Ian, invece, ha altri progetti. Forte del successo di Song for Jeffrey, forse il pezzo meno blues di This Was, vorrebbe proporre un inusitato mix di folk, prog e musica classica, condito da qualche accelerazione hard.

Come sappiamo, ha la meglio Anderson e Abrahams lascia per formare i Blodwyn Pig, complesso validissimo con cui conoscerà qualche successo. I Jethro Tull sono ancora lontani dal successo, è vero, ma la stampa li ritiene un gruppo in rampa di lancio, di quelli da tenere d’occhio. E così, la successione per il posto di Mick, somiglia alle lotte di successione ai tempi dell’Impero Romano.

Per un po’, alla sei corde spunta Tony Iommi, indeciso se investire seriamente in una band che sta per cambiare il nome in Black Sabbath. Tony figura nel bizzarro Rolling Stones Circus, dove suona in playback doppiando le parti di Abrahams. Iommi, con la sua menomazione alle dita, appare in difficoltà nel prendere alcuni accordi dei pezzi folk del complesso. Ma è forse il richiamo del metallo pesante di Birmingham a farlo tornare all’ovile.

I Jethro Tull valutano allora David O’List, chitarrista in quei Nice dove muove i primi passi Keith Emerson, e Steve Howe, futuro chitarrista degli Yes. I due, pur validissimi, non trovano l’affiatamento giusto e allora le audizioni proseguono. A una di queste, assieme a una cinquantina di altri musicisti, si presenta timidamente Martin Barre. Barre colleziona due provini che non promettono nulla di buono. Al primo porta una Gibson semi-acustica che a malapena si sente e fa più bella figura al flauto, strumento che suona bene, anche se non quanto Ian.

Martin riesce a spuntare l’appuntamento per un’altra prova. Stavolta porta la chitarra giusta, una Gibson arancione del 1959, ma nella stanza d’albergo dove lo riceve Ian manca l’amplificatore. Anderson, che cerca più sensazioni che tecnica, però si convince e lo recluta. Il sodalizio, nato senza grandi pretese, sarà uno dei più longevi e riusciti del rock.

Dopo un lungo periodo alla ricerca dell’affiatamento in giro per il mondo in scombinati tour, i Jethro Tull entrano in studio per registrare Stand Up, il seguito di This Was.

Le registrazioni avvengono quasi completamente ai Morgan Studios, nell’aprile del 1969. Il lavoro viene prodotto da Anderson e Terry Ellis, ma un ruolo fondamentale lo gioca Andy Jones, ingegnere del suono. Jones è il fratello di Glynn, produttore di grido già attivo con Led Zeppelin e Traffic, e ha la fissa per gli esperimenti in studio.

La copertina è una piccola opera d’arte incisa con la tecnica xilografica da James Grashow. Un lavoro talmente bello che in parte rischia di offuscare il contenuto dell’album, tanto da vincere il premio NME per la miglior copertina del 1969.

Scherzi a parte, è proprio la musica di Stand Up a decretare il salto di qualità dei Jethro Tull.
L’apertura spetta a A New Day Yesterday, anello di congiunzione col blues del primo disco. Un pauroso riff di basso, presto doppiato dalla chitarra, apre il pezzo. Ian Anderson si cimenta con l’armonica e poi entra con la sua caratteristica voce, narrando di un amore da tour che finisce appena iniziato.

Martin Barre si produce nel primo assolo come chitarrista dei Jethro Tull, una breve ed efficace parte che riecheggia il Clapton del periodo, allontanando il tocco jazzato di Mick Abrahams. Tocca poi al flauto del frontman, qui insolitamente misurato.

In Jeffrey Goes To Leicester Square torna la figura di Jeffrey, che altro non è che un amico di Ian, Jeffrey Hammond, bassista che farà anche parte in futuro del gruppo. Il pezzo annuncia il nuovo suono dei Jethro Tull con forti accenti folk e le percussioni di Clive Bunker. Un breve bozzetto che non entra nella leggenda ma molto piacevole.

Il brano successivo, Bourée, è invece il primo vero colpo gobbo di Anderson e soci. Un’aria classica di Bach suonata con grinta naif dal flauto di Ian, poco avvezzo alla tecnica da conservatorio ma incredibilmente espressivo. La parte più classica si tiene meravigliosamente in equilibrio sul filo del kitsch, sempre in agguato in esperimenti di questo genere.

Particolarmente efficace è però la parte più rock del brano, assolo di basso di Glenn Cornick compreso. Si parla sempre poco dell’influenza dei Jethro Tull in certa musica che dominerà gli anni ‘70, ma basta ascoltare gli stacchi di batteria di Bourée e certi passaggi di flauto per trovare un ‘incredibile somiglianza con tante colonne sonore di culto di quel decennio, a partire da Milano Calibro Nove degli Osanna.

Bourée, con tutti i rischi dell’operazione, fa breccia negli ascoltatori ed entra nella storia. Oltre che nelle scalette live, da cui non uscirà mai.

Back To The Family è ancora un pezzo rock sostenuto, col flauto in bella evidenza. Il testo narra lo stato d’animo tipico del musicista, ma in cui chiunque lavori fuori può ritrovarsi. Ian sente la mancanza di casa e delle radici quando è in tour, per poi annoiarsi di fronte alla routine della vita in famiglia. Sono problemi, certo, direte voi. E avreste ragione.

Nel finale c’è spazio per un assolo di Martin Barre con suoni particolarmente trattati, quasi spaziali, che ricordano un po’ certe cose degli Steppenwolf.

Look Into The Sun è un pezzo acustico d’amore che chiude il primo lato. Anderson si cimenta alla chitarra acustica, mentre Barre ricama su quella elettrica. Ian, va detto, era un buon chitarrista, con qualche velleità da solista prima di dedicarsi al flauto. L’aver incontrato strumentisti molto più abili lo aveva indotto a cambiare strumento.

La seconda facciata si apre con Nothing Is Easy, altro cavallo di battaglia dei Jethro Tull e di Stand Up. Il testo è una sorta di motivazione a non arrendersi di fronte alle difficoltà, la musica si dipana in un rock sostenuto e veloce, con qualche concessione al blues nella parte di chitarra di Barre. Il flauto è qui in grandissima evidenza, ma l’invito è di prestare orecchio alla sezione ritmica di Bunker e Cornick, che qui marcia davvero come un treno.

Fat Man è un breve bozzetto che parte per lidi orientaleggianti con la voce di Ian in primissimo piano. Il testo, scherzoso quanto censurabile, ironizza sulle difficoltà delle persone sovrappeso. La canzone, scritta ai tempi di Mick Abrahams, non si sa se con intenti offensivi, fece particolarmente irritare il chitarrista, che era leggermente sovrappeso.

We Used To Know rievoca i primi tempi di musicista di Ian Anderson, quando suonava nella John Evan Band; tempi in cui non se la passava troppo bene. Stupisce l’effetto nostalgia in Ian, che era all’epoca a malapena ventiduenne. La canzone è una tipica ballata, piuttosto malinconica e dall’azzeccata melodia. Il lungo assolo di Martin Barre è molto efficace e distorto.

Il motivo per cui We Used To Know è così celebre è però un altro. Il brano è basato su una sequenza di accordi, invero molto diffusa, che sarà ricalcata da Hotel California degli Eagles. Per molti la leggendaria canzone degli americani non è altro che una riproposizione più articolata del pezzo dei Jethro Tull; anche l’assolo, celeberrimo, degli Eagles finisce per ricordare quello di Barre.

La polemica non manca mai di solleticare, specie in tempi di deliri social, i fan più molesti. Questo nonostante lo stesso Ian Anderson si sia espresso più volte negli anni a favore dei colleghi americani, negando la volontà di plagio e apprezzando molto Hotel California. Quando si dice essere più realisti del re.

Reasons For Waiting è ancora un’incursione nella ballata acustica, melodica e con un arrangiamento che prende vagamente la via orchestrale. Un brano che dimostra come qualche idea dei Jethro Tull fosse ancora non del tutto a fuoco.

For A Thousand Mothers chiude Stand Up con un brano dal ritmo sostenuto e tutti i cliché che la band va delineando. Il flauto aggressivo, la voce ferma e declamante di Anderson, la ritmica che non perde un colpo e la chitarra sempre più sicura e svolazzante di Barre. Il testo parla del rapporto difficile di Ian coi genitori, rei di non aver creduto nella strada di musicista scelta dal figlio. Un contrasto che tornerà spesso nel canzoniere del complesso.

Negli anni sono uscite infinite versioni di Stand Up con bonus track e alternate take buone per riempire i libretti dei CD e per svuotare le tasche dei collezionisti. Stand Up, però, quello vero, è in questi dieci pezzi. Un album breve e compatto che dà la giusta misura di una band in stato di grazia e sull’orlo del successo.

Un gruppo che, di lì a poco e dopo il mezzo passo falso di Benefit, aggiusterà il tiro in vista dei grandi capolavori.

— Onda Musicale

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