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Steely Dan, la leggenda americana e il loro disco d’esordio

Gli Steely Dan negli anni Settanta

Nella New York del 1967 si incontrano due ragazzi ancora adolescenti che studiano al Bard College di Annandale-on-Hudson, Walter Becker e Donald Fagen. Dalla loro unione nasceranno gli Steely Dan.

Gli Steely Dan sono un caso straordinario nel panorama pop rock statunitense. Lontani dal rock duro o psichedelico che impazza in quegli anni, ma anche dal pop e dal folk che animano le classifiche. L’incredibile raffinatezza e l’innata eleganza sono doti rare, soprattutto in un ambito che spesso premia le scelte più grossolane come quello Usa.

Di più, gli Steely Dan sono forse la prima band che riesce a traghettare le atmosfere notturne e raffinate del jazz nel pop da classifica, impresa che non era riuscita nemmeno ai Beatles. Il loro mix di jazz, pop, svisate blues e impianto strumentale rock, pulsioni soul e capacità tecniche degne del prog, fa degli Steely Dan un caso unico. E di grande successo.

Le intuizioni strumentali, che portano avanti un discorso affrontato in parte da James Taylor o Carole King, anticipano praticamente tutte le trovate da classifica che sfonderanno solo negli anni Ottanta.

Walter e Donald si incontrano quando hanno diciassette e diciannove anni; a Brooklyn si uniscono a una band che si chiama Jay and the Americans, con cui rimangono fino al 1971. Donald suona le tastiere e ha una bellissima voce che però è restio a sfoggiare per timidezza; Walter è un valente chitarrista che però spesso si rifugia dietro le quattro corde del basso. L’accoppiata non è certo fatta per gli sfrontati anni del rock’n’roll, eppure troverà la strada giusta.

Il successo, però, non arriva subito.
I due si trasferiscono a Manhattan e sfruttano la loro abilità compositiva. Il primo risultato è appariscente ma non li porta lontano: scrivono un pezzo per Barbra Streisand. Il secondo è meno promettente ma sarà decisivo: conoscono Gary Katz, produttore della ABC che se li porta a Los Angeles e gli cuce addosso una band coi fiocchi.

Il complesso vede Danny Dias e Jeff Skunk Baxter alle chitarre, il batterista Jim Hodder e il cantante David Palmer. Nonostante la voce bellissima di Fagen, l’ingresso di Palmer è necessario soprattutto in ottica live, dove la timidezza di Donald ha già causato brutte esperienze. Fagen, a volte, perde la voce proprio per l’emozione, in modo – per così dire – psicosomatico.

Il moniker Steely Dan nasce in modo curioso, specie considerando la timidezza dei due e la proverbiale raffinatezza. Il nome viene infatti dal Pasto Nudo di Burroughs, scrittore d’avanguardia per cui i due nutrono una sorta di ossessione. Steely Dan, nel romanzo, è il nome di un vibratore a vapore. Nei dischi successivi il bizzarro mondo di Burroughs farà spesso capolino.

Lo stesso per Katz, che sarà per tutti gli anni Settanta il produttore di riferimento, e per il sodalizio con il tecnico del suono Roger Nichols.

Il primo album arriva nel novembre del 1972 ed è il mitico Can’t Buy a Thrill.
La copertina cincischia ancora nell’immaginario erotico, proponendo un collage di immagini osé sullo sfondo di un quartiere a luci rosse degli anni Quaranta.

Basta mettere il disco sul piatto, o far partire l’album su una qualsiasi piattaforma di streaming, tanto la musica è la stessa, è la magia arriva subito al primo pezzo. Do It Again è forse ancora oggi il brano più famoso della band, quello che più di tutti risuona nella testa di ogni ascoltatore. Da quello occasionale all’espertone pronto a bacchettare sotto un post di Facebook.

Do It Again è una lunga cavalcata ideale come colonna sonora di un viaggio nelle interminabili highways americane. Un miracolo sospeso tra pop e rock dove ogni ingrediente è dosato alla perfezione. L’attacco quasi sudamericano con le percussioni di Jim Hodder, l’ingresso elegante dell’organo di Fagen e la chitarra svolazzante che ricama lick.

La voce che attacca in modo leggendario è quella di Donald, anche se nei live e nel video che ancora oggi accompagna la canzone a cantare è David Palmer, per i motivi di cui sopra. Il video è anzi parimenti leggendario, con l’incredibile abbigliamento kitsch e la presenza scenica straniante di Palmer. La canzone si avvale di un meraviglioso assolo suonato da Denny Dias al coral electric sitar e di un altro di stampo prog di Fagen col suo fedele Plastic Organ YC-30.

A questo punto si potrebbe riporre il disco nella custodia o spegnere il laptop, basterebbe solo Do It Again per la leggenda. E invece, Can’t Buy A Thrill prosegue mantenendosi su livelli d’eccellenza.

La delicata Dirty Work, cantata da Palmer sul tappeto liquido delle tastiere di Fagen e che si apre in un ritornello West-Coast con tanto di coretti. Un bozzetto dai colori pastello che anticipa tanto rock FM.

L’attacco di piano della bella Kings, che alterna sapientemente atmosfere e cambi di ritmo con coretti e un bell’assolo di chitarra di Elliott Randall, fenomenale turnista. Bellissima anche la notturna Midnight Cruiser, con Hodder alla voce e un ritornello di stampo country.

Only a Fool Would Say That è una specie di cha-cha-cha con una chitarra smaccatamente jazz e un andamento assai accattivante. Il lavoro di Baxter alla sei corde per tutto il brano è davvero notevole. Un brano dai contorni rilassanti, quasi da chillout ma con un’abilità tecnica superiore.

Si scavalla la metà del disco e la seconda facciata si apre con l’altro capolavoro: Reelin’ In The Years. Il brano, una rilassata ballata condotta dal piano, rappresenta tipicamente lo stile di Fagen e Becker, tanto da essere quasi un archetipo della loro musica. I due ritenevano la canzone finita, ma alla fine decisero di inserire un assolo di chitarra, ancora a opera di Randall.

L’idea fu abbastanza buona, se consideriamo che la parte del turnista venne inserita da Rolling Stone al quarantesimo posto tra i migliori assoli rock di tutti i tempi. Niente male per un turnista.

C’è ancora spazio per la bella Fire In The Hole, con atmosfere quasi da musical e il piano di Fagen in bella evidenza. Chiude un bell’assolo di pedal steel guitar di Skunk Baxter. Brooklyn (Owes The Charmer Under Me) esplora le frontiere del soul, ancora con la pedal steel di Baxter e atmosfere rilassate tipiche del Clapton che verrà di lì a poco. Change of the Guard sembra quasi uscire da una colonna sonora di qualche commedia rilassata degli anni Settanta. Se non addirittura da un disco degli Oliver Onions. Fenomenale – ancora una volta – il lavoro chitarristico di Baxter.

Chiude l’album Turn That Heartbeat Over Again, lunga ballata con le voci che si alternano, lasciando spazio anche a quella di Walter Becker. Notevoli i cori, quasi a ricordare il magico amalgama di Crosby, Stills, Nash & Young.

Insomma, Can’t Buy A Thrill è un lavoro che sorprende allora come oggi e che anticipa tante fusioni di stile del decennio successivo. L’impasto manca forse ancora del dovuto rodaggio e dell’esperienza, ma di lì a qualche anno gli Steely Dan daranno vita a capolavori di ancora maggior spessore.

— Onda Musicale

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