At Fillmore East è sicuramente il disco che consegna alla leggenda l’Allman Brothers Band e uno dei live più osannati della storia del rock.
Tuttavia, quando At Fillmore East esce, nel luglio del 1971, il gruppo dei fratelli Allman è ancora ben lontano dall’aver raggiunto lo status di mito di cui gode oggi. Anzi, quando nasce l’idea del live, il secondo album della band – Idlewild South – stenta a sfondare nelle classifiche.
L’Allman Brothers Band, a quel tempo, è reduce dalla falsa partenza come Hour Glass. Due album fallimentari registrati in California, sempre piegati ai dettami dell’etichetta che avrebbe voluto farne uno dei tanti complessi dell’ondata psichedelica e del flower pop. Gli Allman, sudisti convinti, amanti di un sound grezzo e potente e di idee piuttosto reazionarie, in quel contesto c’entrano poco.
Il primo album a loro nome segna già una decisa virata verso un rock blues tirato e senza tanti fronzoli. La doppia batteria e le due chitarre soliste di Duane Allman e Dickey Betts segnano il sound assieme all’appassionata voce da bluesman di Gregg. Idlewild South è un ulteriore passo verso l’involontaria creazione di un genere, quel southern rock che riunirà sotto la stessa bandiera sudista una serie di band che raramente avvicineranno la tecnica degli Allman.
Come detto, però, all’epoca il complesso è ben lontano dalla cima del rock.
Duane si spende molto, per arrotondare, come turnista; è proprio in questa veste che viene notato da Eric Clapton, al tempo già dio della chitarra. Eric si innamora della parte solista che Duane suona nella Hey Jude di Wilson Pickett, tanto che lo definirà il suo assolo preferito di tutti i tempi.
Dopo una veloce conoscenza, Clapton invita Duane a suonare con lui nei Derek & The Dominos; le quotazioni di Duane crescono ovviamente in men che non si dica. I problemi della band sono però ancora gravi, soprattutto sul versante economico. Addirittura il tour manager Twiggs Lyndon arriva a macchiarsi di un terribile fatto di cronaca quando accoltella a morte un promoter locale che si rifiuta di pagare il dovuto al gruppo.
In questo contesto, diviene decisiva la figura di Bill Graham, creatore del Fillmore, prima di quello mitico di San Francisco e poi di quello a est, a New York. Graham è una figura leggendaria del rock americano e con una storia che meriterebbe non un articolo, ma un film di Tarantino. Nato a Berlino da una famiglia ebrea come Wolodia Grajonca, il ragazzino vanta una storia da brivido. Lui, infatti, si salva dall’Olocausto per un vero colpo di fortuna, ma sia la sorella che la madre muoiono, quest’ultima nell’inferno di Auschwitz.
Quando Wolodia arriva in America, per colmo d’ironia viene bullizzato per via del suo accento tedesco, tanto da essere schernito come nazista. Una vera beffa, vista la sua vicenda. È allora che decide di cambiarsi il nome in Bill Graham. Il cognome lo sceglie sfogliando l’elenco telefonico: Graham è il nome più vicino a Grajonca. Lavora duramente per migliorare il suo accento e si arruola, combattendo in Corea.
La parte della sua storia che ci interessa è però quella che, per vie traverse, lo porta a diventare impresario musicale. L’apertura del Fillmore di San Francisco è il suo vero colpo di genio.
Il rapporto della band dei fratelli Allman con Graham e col Fillmore è decisivo e inizia nel 1969. Nel dicembre di quell’anno il complesso apre per tre serate i live degli Sweat, Blood & Tears, ottenendo grandi consensi e l’apprezzamento del titolare. Già un mese dopo i ragazzi del sud fanno da spalla ai grandi del blues Buddy Guy e B. B. King dall’altra parte degli States, a San Francisco.
Poco dopo gli Allman rimbalzano ancora a New York per fare da apripista ai Grateful Dead. È curioso notare come oggi il nome dell’Allman Brothers Band sovrasti quello di alcune band per cui facevano solo da spalla, ma in realtà sono proprio le performance ai Fillmore, infuocate, a far impennare la loro popolarità.
Arriva così l’idea del live, che viene registrato il 12 e 13 marzo del 1971. Due serate in cui i musicisti guadagnano 1250 dollari a serata e che, purtroppo, preludono alla chiusura del locale. Sono tempi in cui tutto succede a ritmi frenetici e Graham si stanca presto della sua gallina dalle uova d’oro. Il Fillmore sbaracca il 27 giugno del ‘71 e – manco a dirlo – gli Allman sono tra gli artisti che suonano alla serata d’addio.
La produzione del mitico live è di Tom Dowd, già con la band per Idlewild South. Il lavoro è frenetico: dopo la prima serata, produttore e musicisti vanno agli Atlantic Studios per lavorare sui nastri. Visto che i musicisti sono contrari a qualsiasi aggiustamento posteriore alle registrazioni, si opta per prestare particolare attenzione nella serata successiva ai brani che non sono venuti troppo bene.
Inorridito dalla tremenda copertina di Hold On, I’m Comin’ di Sam & Dave, curata dall’Atlantic, loro etichetta, Duane non si vuole affidare allo studio grafico. La foto di copertina, diventata ormai un’icona, viene scattata di mattina presto a Macon, dove i musicisti vivono. L’ilarità generale è causata da un aneddoto che non tutti conoscono.
Mentre i ragazzi sono già in posa, Duane vede da lontano un amico spacciatore e gli corre incontro per ritirare un sacchetto di cocaina. Quando torna tutto è pronto per lo scatto, compresa l’aria divertita dei suoi sodali.
Come detto e universalmente noto, la verve dell’Allman Brothers Band è particolarmente efficace dal vivo; è così che, a fronte di soli sette brani, sia necessario pubblicare un album doppio che viene però venduto al prezzo di uno normale. Paradossalmente, le sconfinate jam session che lo renderanno una leggenda del rock, non sono gradite a Jerry Wexler dell’Atlantic. Il produttore le trova noiose e inutili, e ottiene di tagliare almeno la mezz’ora abbondante di improvvisazione di Mountain Jam.
Inutile dire che Jerry si sbagliava e che At Fillmore East entrerà nella storia proprio per le “inutili” lungaggini strumentali.
L’album è composto per le prime quattro tracce da altrettante cover, tutte di classici più o meno noti del blues. L’attacco è per Statesboro Blues, vecchissimo standard di Blind Willie McTell riportato in auge da Taj Mahal. Il brano è la palestra ideale per la slide di Duane Allman, grande virtuoso del genere nonostante lo abbia iniziato a suonare relativamente da poco. Duane suona con una bottiglietta di Coricidin, un antidolorifico, al posto del cilindro di metallo usato allo scopo.
Il pezzo è un tipico blues con parti “in staccato”, baldanzoso e ideale per le schermaglie tra la slide di Duane e la sei corde più canonica e educata di Dickey Betts. Gregg, da par suo, sfoggia una vocalità che non ha nulla da invidiare ai bluesman neri.
Negli altri pezzi la band esplora tutte le sfumature del blues, tanto da rendere chiaro come all’epoca siano un complesso di blues puro. Infuocato, potentissimo e sregolato, ma pur sempre blues. Done Somebody Wrong è un omaggio a Elmore James, virtuoso della slide, con un ritmo sghembo che rimane impresso al primo ascolto.
Stormy Monday è un lunghissimo blues lento, reso leggendario dal suo autore T-Bone Walker, pioniere della chitarra elettrica. La versione degli Allman concentra in dieci minuti tutti i cliché della chitarra blues. You Don’t Love Me, di Willie Cobbs, è ancora più dilatata, quasi venti minuti di furente blues con virate quasi funky.
Con Hot ‘Lanta si passa finalmente al repertorio a firma della band. Il pezzo vanta un attacco abbastanza jazzato, con le tastiere di Gregg in evidenza e il grande lavoro dei batteristi, Butch Trucks e Jai Johanny Johanson “Jaimoe”. Il brano è strumentale e offre soprattutto a Duane la possibilità di mostrare le sue capacità, con la chitarra che si arrampica tra scale jazz e suggestioni fusion.
Nonostante la durata non da record, c’è spazio anche per un breve assolo delle due batterie. In Memory of Elizabeth Reed è uno dei cavalli di battaglia del gruppo; una lunghissima cavalcata tra fusion, assoli e grande spazio per le parti strumentali e i cambi di ritmo. Il titolo ha fatto nascere diverse leggende sull’ispirazione dell’autore Dickey Betts.
Quella più suggestiva narra dello pseudonimo di una ragazza italiana letto su una lapide di un cimitero. Uno strumentale coi fiocchi dove c’è spazio per un po’ di tutto, dalla fusion latina di Santana ai cambi di ritmo, fino al blues duro caro a Duane Allman.
Un poderoso riff di basso, subito doppiato dalla chitarra, apre l’interminabile Whipping Post. Finalmente si torna a cantare, con Gregg che dà fondo alla sua ugola di carta vetrata per arrampicarsi su tonalità insolitamente alte. Sugli scudi troviamo sempre le chitarre, in un brano le cui atmosfere si muovono ancora tra blues e fusion, con duelli alle sei corde infiniti.
Whipping Post dura quasi ventitré minuti e chiude in gloria At Fillmore East.
Ovviamente, negli anni sono uscite fuori anche le registrazioni dei brani esclusi dal doppio album. La conta arriva così a tredici brani. Le aggiunte sono la famigerata e interminabile jam di Mountain Jam, il sostenuto blues di Trouble No More, il funk-soul di Don’t Keep Me Wonderin’, ancora il blues di One Way Out, la breve Midnight Rider e il blues sofferto di Drunken Hearted Blues.
At Fillmore East esce nel luglio del 1971 e vende molto bene; è la prima volta che l’Allman Brothers Band si affaccia con prepotenza nelle parti alte delle classifiche. Nulla, però, in confronto alla statura che il doppio assumerà negli anni. Per la band la strada pare spianata. E invece sarà proprio la strada a portarsi via, appena tre mesi dopo il successo, l’irripetibile talento di Duane Allman, in un banale incidente di moto. La stessa strada che un anno dopo porterà via anche il bassista Berry Oakley, ammantando per sempre la storia della band di una sinistra aura maledetta.