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Be Here Now degli Oasis, il colosso dalle gambe d’argilla del rock

La cover di Be Here Now

Nell’agosto del 1997 esce Be Here Now degli Oasis. Il disco segue a meno di due anni l’incredibile successo di (What’s The Story) Morning Glory?

Be Here Now è forse il disco più atteso della storia del rock britannico. Può sembrare un’affermazione eccessiva, considerando che la storia del rock targata UK è la storia stessa del rock: Beatles, Rilling Stones, Pink Floyd, Led Zeppelin e chi vuole aggiunga a piacere. Eppure, nei frenetici anni Novanta inglesi, l’isteria attorno al fenomeno del Britrock è tale da giustificare tanto clamore.

E se non vi fidate della storia, ci sono sempre i numeri, e quelli non mentono per loro natura. Solo nel primo giorno di pubblicazione, Be Here Now vende più di 420mila copie, una cifra oggi impensabile e che probabilmente non è più alta solo perché venderne di più sarebbe stato fisicamente impossibile. Nella prima settimana il disco supera allegramente il milione di copie.

Poi, più o meno inspiegabilmente, qualcosa si inceppa. Se nella natia Gran Bretagna il disco regge sia come vendite che come giudizio critico, negli altri paesi, soprattutto l’Eldorado Usa, c’è un cedimento. Di chi è la colpa di un tale saliscendi nella vicenda di Be Here Now.

Come sempre, non c’è una risposta semplice. Gli Oasis, intanto, sono in pieno shock da successo planetario. I ragazzi di Manchester sono passati da un’adolescenza proletaria, tra bevute al pub e classiche risse da troppa-birra-in-corpo a pasteggiare a champagne insieme a Johnny Depp e Kate Moss sull’isola privata di Mick Jagger.

Il tempo, poi, più che galantuomo è coi nostri tiranno.
Dopo la sbornia di clamore di Morning Glory, gli estenuanti tour mondiali e le improvvise luci dei riflettori, i ragazzi avrebbero bisogno di tempo e calma per metabolizzare un cambiamento talmente radicale da stendere persone ben più equilibrate. Se c’è un detto che fa impazzire lo showbiz, però, è quello che recita “Il ferro va battuto finché è caldo”.

E così la Sony preme per avere prima di subito il sequel dell’imprevisto kolossal del 1995. I fratelli Gallagher sono tipetti piuttosto inclini alle liti; ora questa verità è incisa sulla pietra e di dominio pubblico, ma all’epoca i due sono degli oggetti misteriosi. Ben presto, però, è chiaro che tra modi fin troppo ruvidi ed ego smisurato, i due hanno qualcosa che non va per resistere costantemente sotto la luce.

Noel ha un problema non risolto non con la figura paterna, ma con quella di John Lennon. Non trova di meglio, volendo superare il suo idolo, che dichiarare che gli Oasis sono “più grandi di Dio”. Certo, quella che negli anni Sessanta era una dichiarazione che negli Usa scatenava disordini pubblici nei cari, vecchi stati del sud, negli anni Novanta inglesi fa il mesto botto del tappo di uno spumante sgasato.

Ci pensa Liam, il bello dall’ugola citofonata e la dizione dei bassifondi, ad alimentare un po’ di sano gossip. Si fa arrestare per la sua passione per la coca, fa parlare per la storia con l’allora famosa Patsy Kensit e – per non farsi mancare nulla – sputa sul pubblico Usa, non metaforicamente, quando non salta le tappe del tour. Le liti tra Liam e Noel, che andavano avanti da ben prima dell’esistenza degli Oasis, diventano faccende nazionali e mettono a rischio il cammino della gallina dalle uova d’oro.

È allora che i discografici pressano la band per ottenere subito un disco da dare in pasto ai fan. Prima che avvenga l’irreparabile.

Noel, però, a causa della botta di successo – e di alcol e droga, che in quel caso sono la stessa cosa – sta sperimentando un terribile blocco dello scrittore. Proprio durante il famigerato soggiorno a Mustique, il paradiso tropicale a nome Jagger di cui sopra, la testa pensante degli Oasis riprende a comporre.

Lo stesso Noel descrive i suoi sforzi di darsi una routine per ritrovare l’ispirazione: “Al mattino andavo in questa stanza, uscivo per pranzare, tornavo dentro, uscivo per cena, tornavo dentro, poi andavo a letto.” Tra i vari passaggi ci deve essere qualche momento più divertente, se è vero che la collaborazione con Johnny Depp in Fade In-Out nasce dopo una sbronza sulla spiaggia.

Noel, comunque, torna dai Caraibi con quattordici canzoni nuove di zecca che ha registrato come demo con l’ausilio di una drum-machine. Le registrazioni iniziano in modo “maledettamente terribile” (secondo il produttore Owen Morris) agli studi di Abbey Road. Con l’ossessione che i Gallagher covano per i Beatles è il minimo. Per ingranare, però, la band si dovrà trasferire ai Ridge Farm Studios, nel Surrey.

Le registrazioni sono viziate da una quantità mai vista di droga che circola e che viene messa gentilmente a disposizione dalla band a produttori, ingegneri del suono e chiunque capiti a tiro. Sempre Morris dichiara: “Nella prima settimana qualcuno provò a farsi 30 grammi di erba, ma invece ottenne 30 grammi di cocaina, il che riassume un po’ le cose.”

Un altro problema è il volume. Noel lo pretende altissimo e arriva a sovraincidere fino a dieci parti di chitarra elettrica – tutte uguali – per ottenerne di più.

È qui che nasce la natura ambivalente di Be Here Now.
Sì, perché al di là di quello che ne dicano i Gallagher – “un mucchio di merda” per Noel, “un capolavoro” per Liam – le canzoni mostrano un compositore in stato di grazia. Le melodie di pezzi come Stand By Me, Don’t Go Away o All Around The World sono sublimi. Allo stesso modo, alcune parti strumentali sono perfettamente riuscite e portano l’inconfondibile marchio del complesso.

Il problema sta nella misura. In Be Here Now è tutto troppo. I suoni sono troppo strutturati, i brani sono troppo prodotti e troppo lunghi. Le code strumentali sono inutilmente dilatate, Liam strilla troppo e il basso è troppo basso. La lunghezza dell’album, poi, è incomprensibilmente portata all’estremo, quasi mezz’ora in più di qualsiasi altro lavoro a firma Oasis.

Be Here Now è insomma il risultato di un gruppo che si crede dio e a cui nessuno fa notare la stupidità del pensiero. Il successo, quando è così grande, in genere zittisce chiunque voglia dire qualcosa di intelligente. Gli Oasis sono così cinque ragazzi viziati e presuntuosi, con un genio della scrittura e bravi a suonare, che pensano solo a drogarsi, bere e a strafare. Vogliono dimostrare che sono i più fottutamente grandi della storia e non ci riescono non per mancanza ma per eccesso.

Gli Oasis vogliono stravincere e si ritrovano all’angolo storditi come un pugile suonato che non sa cosa sia successo.

Ma vediamo più nel dettaglio come suona il bistrattato – e parzialmente rivalutato – Be Here Now. Il disco si apre con D’You Know What I Mean?, pezzo scelto all’epoca come singolo di lancio, con tanto di video epico e roboante. Il brano è di quelli che appartengono, per l’appunto, al filone epico della band ed è subito il giusto paradigma dell’album.

Si tratta infatti di puro Oasis sound, melodia inappuntabile e ritornello accattivante che si pianta subito in testa. Il problema è proprio in un certo overload produttivo, coi suoni troppo pompati che creano un sovraccarico nella testa del fruitore. La durata di quasi otto minuti non aiuta: chi all’epoca compra un disco dei ragazzi di Manchester non si aspetta certo di ascoltare pezzi lunghi come una suite degli Yes.

Si va avanti con My Big Mouth, brano che – proseguendo il gioco – fa parte del repertorio più casinaro da pub. Ancora una volta la canzone è azzeccata ma paradossalmente depotenziata dalla troppa potenza di fuoco. Magic Pie è l’unico brano cantato da Noel e il fatto la dice lunga.

Non è mistero che nei vari dischi Noel abbia sempre teso a riservarsi le canzoni più malinconiche e melodiche, spesso anche le più azzeccate. Magic Pie parte come ballata acustica, peccato che poco dopo la band torni a mostrare i muscoli in modo fracassone. Il brano rimane comunque in perfetto stile Oasis e molto azzeccato. Anche qui – preparatevi, lo diremo spesso – la durata è eccessiva, oltre sette minuti di ripetizione.

Al quarto brano, dopo un ottimo tris d’attacco, gli Oasis beccano il primo capolavoro del disco, Stand By Me. E, ovviamente, lo fanno con un pezzo che sfoggia la giusta misura in tutto. La melodia pare già sentita ma è cristallina: una delizia. La voce di Liam, bellissima quando vuole, è chiara e forte sopra gli strumenti, qui meno roboanti.

Il testo è romantico ma non banale, i controcanti di Noel da brivido e le parti strumentali non troppo invadenti. Stand By Me è la canzone perfetta di Be Here Now.

I Hope, I Think, I Know è un brano del filone rock da pub, rumoroso ma che passa senza lasciare il segno; The Girl In The Dirty Shirt è uno dei passaggi più beatlesiani e – senza preavviso – sfoggia uno di quei ritornelli killer che solo gli Oasis. Un brano non notissimo ma da rivalutare, degno della tradizione british tra Beatles e Kinks.

Fade In-Out vira senza troppo nerbo verso la psichedelia e si fa ricordare soprattutto per la presenza ineffabile di Johnny Depp alla chitarra slide. Il nostro Johnny Old Boy non è certo Ry Cooder ma fa la sua bella figura.

Don’t Go Away è un altro pezzo forte di Be Here Now, una ballatona da brividi che forse cantata da Noel avrebbe reso ancora di più. Più malinconica di Stand By Me, sfoggia ancora la miracolosa capacità di Noel di scrivere ritornelli da antologia. E forse, al di là di atteggiamenti e polemiche, sarebbe anche giusto dire che il maggiore dei Gallagher è uno dei più grandi artigiani della canzone degli ultimi trent’anni.

Si va avanti con la title-track, un curioso rock’n’roll d’altri tempi, sfizioso ma nulla di troppo impegnativo. Siamo quasi in chiusura e i ragazzi ne azzeccano un’altra delle loro, All Around The World. Il pezzo è stato scritto da Noel prima del successo, ma l’incisione è sempre stata rimandata perché in un delirio da Sgt. Pepper richiedeva un’orchestra di trentasei elementi che solo ora gli Oasis possono permettersi. All Around The World è un altro pezzo forte – anche se rinnegato da Noel – del canzoniere, ma ancora penalizzato dalla megalomania di Be Here Now.

Nove minuti sarebbero troppi anche per Emerson, Lake & Palmer e né l’orchestra né le belle parti di chitarra giustificano una durata così monumentale.

Il lavoro si chiude con It’s Gettin’ Better (Man!!), con due punti esclamativi in dispregio della grammatica. Una chiusura paradigmatica quanto l’apertura, un brano che non lascia segni particolari se non nei timpani estenuati dell’ascoltatore, data la stratificazione opprimente di strumenti. Si segnala l’assolo di chitarra, insolitamente acido e piuttosto piacevole.

In realtà, come se l’originale non fosse abbastanza lunga, c’è spazio anche per una ripresa di un paio di minuti di All Around The World, un crescendo orchestrale che paga il pegno di certe smanie beatlesiane dei Gallagher.

Insomma, venticinque anni dopo Be Here Now si può giudicare senza gli isterismi che circondavano gli Oasis dell’epoca, qualsiasi cosa facessero. E il giudizio è votato al rimpianto; il disco contiene infatti canzoni bellissime ma sacrificate sull’altare dell’ego dei Gallagher. Tranne due o tre pezzi perfetti, le canzoni sono maltrattate da una produzione eccessiva. Il disco è degno comunque di rivalutazione e di scrollarsi di dosso anni di demonizzazione.

Tuttavia, la carriera degli Oasis esce male da Be Here Now. Dopo gli iniziali entusiasmi, l’uscita di lavori coevi come OK Computer dei Radiohead o Urban Hymns dei Verve fa invecchiare di colpo il loro sound. Il contraccolpo di un lavoro riuscito solo in parte mette fine alla parte milionaria della carriera della band che, impegnata a sconfiggere i Blur non vede l’arrivo di nuovi suoni.

Pur incidendo ancora bellissimi dischi, spesso sottovalutati, gli Oasis non saranno mai più quell’incredibile fenomeno che, per un paio d’anni, fece tornare la Gran Bretagna ai tempi di Beatles, Rolling Stones e della Swingin’ London.

— Onda Musicale

Tags: John Lennon, Abbey Road, Noel Gallagher, Liam Gallagher, Oasis, Mick Jagger, Verve, Ry Cooder
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