Nella seconda metà degli anni Novanta, nella Gran Bretagna invasa dal Britrock, si impone una band che propone un sound molto diverso. Sono i Kula Shaker e il loro successo sarà breve ed esaltante.
I Kula Shaker nascono grazie alla brillante personalità di Crispian Mills; quando si formano non sono certo gli ultimi arrivati. Il primo nucleo di quella che sarà la band si forma alla fine degli anni Ottanta, quando al college di Richmond upon Thames si incontrano Crispian Mills e Alonza Bevan. Chitarra e basso dei Kula Shaker sono quindi già insieme.
Crispian è figlio dell’attrice Hayley Mills, piuttosto famosa come ragazzina prodigio di alcune produzioni Disney e da cui il chitarrista eredita il cognome. Mills è inoltre nipote di John Mills, pezzo da novanta nella storia del teatro inglese. Il giovane è un fervente seguace della scena rock e psichedelica di anni Sessanta e Settanta; inoltre, proprio in quegli anni, va maturando una sincera fascinazione per la cultura e il misticismo indiani.
Nascono cosi gli Objects Of Desire, band che dura per un quinquennio e permette a Mills di farsi una buona reputazione live. Dopo un viaggio in India in cui il nostro si appassiona alle filosofie orientali, una passione autentica che darà vita a risultati musicali un po’ naif, nascono i Kays.
La nuova band unisce un micidiale tiro funk-rock, passaggi psichedelici e onirici, sensibilità melodica pop e un esotismo mistico che ricorda l’approccio dei Beatles. Di George Harrison in particolare, vero nume tutelare di Crispian e compagni, anche se il suo timbro vocale ricorda più John Lennon.
La formazione si assesta con Paul Winter-Hart alla batteria, Jay Darlington alle tastiere e Saul Dismont, cugino di Crispian, alla voce. Presto Dismont abbandona e Mills decide di prendere per sé anche le parti vocali. All’inizio del 1996 arriva il sospirato contratto con la Columbia, che punta su di loro nonostante il sound differisca profondamente da quello dell’ondata Britpop.
Il primo singolo è Tattva, immortale anthem della band che però passa inizialmente quasi inosservato. Grateful When You’re Dead, pezzo bipolare con una prima parte quasi hard rock e una seconda psichedelica, omaggio a Jerry Garcia dei Grateful Dead, va meglio.
Quando Tattva viene ripubblicato fa il botto. Il brano è un gioiellino di perfezione pop, tanto ruffiano quanto irresistibile. Tattva è una parola in sanscrito, cantata su un tappeto tra pop e funk e con un ritornello incredibilmente accattivante. Tattva è tuttora uno dei brani simbolo degli anni Novanta.
Anche il resto di K, il loro album d’esordio, è però di grande livello.
Hey Dude è una cavalcata rock con tanto di wah-wah. Il testo è però profondo e quasi intimista, ponendo l’accenno sull’imperfezione della società capitalistica. Smart Dogs e 303 strizzano l’occhio agli anni Settanta con riff alla Led Zeppelin abbinati al solito talento melodico della band.
Start All Over e Temple of Everlasting Light sono ottimi passaggi dove il ritmo cala; non mancano canzoni che fanno riferimento alla passione indiana di Crispian e che a volte appesantiscono un po’ l’ascolto. All’epoca, per, ai Kula Shaker va tutto per il verso giusto e K vende solo in Gran Bretagna quasi un milione di copie.
A questo punto, per una breve stagione, i Kula Shaker sono una delle Big Thing del panorama UK. I nostri però se la prendono troppo comoda e, tra live e qualche dissidio interno, passano ben tre anni per rivederli all’opera su un LP. Nel 1999 esce Peasants, Pigs & Astronauts, un lavoro che si muove sulle stesse coordinate di K.
Se il sound è simile, va detto che è il mutevole umore degli appassionati a essere cambiato. Oasis e Blur sono già in crisi, i Radiohead hanno fatto la loro piccola rivoluzione e il glam è tornato alla ribalta coi Placebo. Non solo, nelle fragili anime delle nuove generazioni si fanno spazio una serie di band delicate e minimal come Travis e Coldplay. Per i roboanti suoni anni ‘70 dei Kula Shaker lo spazio è sensibilmente ridotto.
Peccato, l’album, registrato all’Astoria Recording Studio di David Gilmour sul Tamigi, è davvero buono. Great Hosannah e Mystical Machine Gun sono pezzi in puro Kula Shaker Style, anche se forse un po’ più pretenziosi di quelli di K. SOS è una tirata hard rock che fa scintille e Shower Your Love una ballata beatlesiana coi fiocchi.
La ripresa di Great Hossannah, Last Farewell, emana vibrazioni floydiane ed è forse migliore del pezzo madre. I passaggi indianeggianti, va detto, sono al limite del sopportabile. I risultati del disco sono sotto le aspettative e – beffa delle beffe – Crispian Mills rischia di essere travolto da uno stupido equivoco.
Un incredibile malinteso sulla svastica come simbolo religioso, infatti, trascina Mills in polemiche sul nazismo e finisce per pesare sulla band, che si scioglie alla fine del Millennio.
Passano gli anni e, tra una raccolta e collaborazioni eccellenti – Darlington entra in pianta stabile con gli Oasis – dei Kula Shaker si perdono le tracce. Si deve arrivare al 2004 per rivedere i ragazzi sul palco. Crispian Mills è tipo da illuminazioni mistiche, e ci piace immaginarlo come Joliet Jake nei Blues Brothers quando viene colpito dalla luce e decide di rimettere assieme la banda.
Solo Darlington, bello al calduccio con gli Oasis, rifiuta: al suo posto arriva Harry Broadbent. I Kula Shaker non sono mai stati tipi col pepe sotto al sedere e amano prendersela comoda, tanto che per un nuovo lavoro, Strangefolk, si arriva al 2007.
Il loro pubblico di adolescenti è ormai cresciuto e forse pensa ad altro che alla musica pop. Come farà tutto il mercato di lì a poco, del resto. La band lo sa e si ricicla con suoni ancora più settati verso il 1970, meno influenze indiane e obiettivi meno faraonici. Strangefolk è un album ottimo, che però in classifica ottiene poco.
Il sound ci ripresenta i ragazzi in formissima, con Crispian maturato sia alla voce che in qualche bell’assolo di chitarra. Die For Love è un pezzo lento e terzinato bellissimo, Hurricane Season è una lunga cavalcata con belle parti d’organo che pare uscire da L.A. Woman dei Doors.
Out On The Highway e 6ft Blues sono pezzi più mossi e odorosi di blues, mentre Fool That I Am è l’immancabile, e meraviglioso, numero alla Beatles. Persephone, relegato a ghost track, è una splendida ballata acustica. Un ritorno davvero incoraggiante.
Eppure, i nostri lasciano passare altri tre anni per dargli un seguito, Pilgrim Progress del 2010. L’album vira ancora più decisamente verso il folk, genere che in quegli anni vive un fortunato revival con band come Midlake e Low Anthem. I Kula Shaker offrono come al solito un prodotto onesto e di buona qualità, ma i fasti d’alta classifica sono ormai un ricordo.
Brani come Ophelia e Cavalry suonano come puro folk rock, vicino a Fairport Convention e ai Jethro Tull più bucolici. Modern Blues e All Dressed Up ispezionano il versante blues alla maniera di Bob Dylan, mentre Figure It Out ricorda i Beatles più psichedelici. Curioso il passaggio western morriconiano di When A Brave Meets A Maid, con la chitarra di Crispian che pare uscire da un film di Sergio Leone.
Quello che manca è una vera intuizione rock e fa un po’ male pensare al lato più scatenato e alle chitarre furenti degli esordi. Questo è però il percorso intrapreso dalla band e va rispettato.
Il successo però latita e i ragazzi della band si dedicano ad altri interessi fino al 2016, quando l’occasione del ventennale di K è troppo ghiotta anche per un complesso che ha sempre mostrato scarso interesse per l’opportunismo più bieco. Esce allora K 2.0, un album dal titolo programmatico che, almeno nelle intenzioni, è un omaggio all’esordio e il ritorno a un rock più robusto.
Ecco allora le classiche Infinite Sun e Holy Flame, la bella Death of Democracy o i sei minuti di cambi di ritmo di Here Comes My Demons. High Noon è ancora un numero alla Morricone, stavolta cantato, con tanto di fischio degno del maestro Alessandro Alessandroni. Tra passaggi orientaleggianti e brani che partono piano e crescono alla distanza, K 2.0 scorre alla grande, col solo difetto di un mercato troppo cambiato in vent’anni.
Get Right Get Ready riprende dopo anni il lato più funk dei Kula Shaker ma è un pezzo riuscito a metà. K 2.0 è un ritorno alle radici riuscito, che mostra una band che dopo vent’anni suona ancora fresca.
Il buon risultato non mette però voglia alla band di dare continuità al suo percorso: per l’album successivo occorre attendere altri sei anni. Il titolo è talmente lungo che forse la lunga attesa è dovuta alla sua composizione: 1st Congregational Church Of Eternal Love (And Free Hugs).
L’attacco è fenomenale con Against It, tirata rock degna del George Harrison più arrabbiato e che ospita forse il miglior assolo di Crispian Mills su disco. Accompagnato da un bel video in salsa indiana, è il brano che riporta i Kula Shaker ai fasti rock che avrebbero sempre meritato. Hometown parte come i Black Sabbath ma vira poi verso i Beatles.
Burning Down è un tipico numero alla Kula Shaker, partenza acustica e poi esplosione elettrica. Grande anche qui il lavoro di chitarra di Mills, mai così sicuro come in questo lavoro. Tra brani folk e qualche riempitivo a sfondo spirituale di troppo, l’album va comunque via in modo molto piacevole. 108 Ways to Leave Your Narcissist è ancora un pezzo che riporta ai Beatles di Revolver, con un bel riff e una melodia azzeccata.
Insomma, dopo quasi venticinque di registrazioni, la vena dei Kula Shaker sembra tutt’altro che esaurita. Qualche nuova registrazione pubblicata sui loro canali fa anzi sperare che per un nuovo capitolo non occorra aspettare i soliti tempi biblici. E, in tempi di carestia per il buon rock, non sarebbe una cattiva notizia.