Gli Alice In Chains sono il punto d’incontro tra hard rock, grunge e metal, pur iniziando come band glam rock.
Gli Alice in Chains ascoltavano Anthrax, Van Halen, Black Sabbath e Judas Priest, ma è abbastanza significativo che Layne Staley cambiò il suo secondo nome in Thomas (in onore del batterista dei Mötley Crüe, Tommy Lee).
Layne Staley, batterista e cantante, viene ricordato da tutti come un ragazzo pieno di talento. Non si limitava solo a cantare e suonare, scriveva anche versi brutali e strazianti. Ad appena diciotto anni fece un provino per una band chiamata Sleze (cantando canzoni dei Mötley Crüe). I membri non continuarono nemmeno i provini, dopo aver sentito lui. Era fatta. Avevano trovato la loro star. Tutti se n’erano accorti, Layne stesso era convinto che sarebbe diventato una rockstar. E non aveva torto.
La questione del nome e la formazione finale
Quando venne il momento di cambiare nome, Bacolas (chitarrista e membro fondatore della band) propose «Alice In Chains», ma il sottile riferimento al bondage non piacque a Nancy, la madre di Layne, fervente cristiana. Alla fine optarono per «Alice N’ Chains» e cominciarono a provare al Music Bank, un complesso di sale di prova a Seattle dove Layne lavorava come guardiano notturno.
Jerry Cantrell, futura chitarra solista, conobbe Pollock, chitarrista corrente della band, e fu invitato a una festa a Seattle. Lì conobbe Layne e lo trovò brillante, divertente e anche affascinante. Andarono subito d’accordo e Layne lo invitò a stare con lui al Music Bank. Poi Jerry lo sentì cantare e decise che prima o poi avrebbero suonato insieme.
Cominciarono a jammare e Jerry era sempre più convinto di voler creare una band con lui. Conobbe Sean Kinney, batterista, tramite Layne, e per l’occasione gli chiese di mettere su una band. Ingaggiarono anche Mike Starr, bassista, e cercarono di convincere Layne a cantare con loro. Organizzarono dei finti provini con dei cantanti mediocri per farlo arrabbiare, alla fine riuscirono nell’intento: Layne capitolò e si propose come frontman.
I primi show e l’incredibile seguito femminile
Jeff Gilbert, ex dipendente della Sub Pop Records e giornalista di Rocket e di Guitar World, racconta che avevano un seguito femminile pauroso. Il loro scopo inizialmente era quello: farsi notare. E non importava in che modo accadeva, l’importante era che se ne parlasse. Non avevano grandi ambizioni, erano ironici, volevano divertirsi. Si allontanarono dal glam rock quando i loro colleghi di band metal li spinsero a smettere di dare spettacolo e iniziare a fare sul serio. Se volevano durare in quell’ambiente, dovevano tirare fuori la loro vera anima.
Iniziarono guardandosi intorno e imitando quello che vedevano, a partire dai Soundgarden, che stavano avendo parecchio successo. Avevano lo stesso management, presero anche loro a indossare camicie di flanella e Doc e vennero chiamati “Kindergarten”. Era solo una fase, un modo per imparare, si inizia sempre imitando chi ci sembra migliore. E, com’è giusto che sia, presero ciò che ritenevano adatto alla loro immagine e lo aggiunsero alle loro personalità. Così sono diventati gli Alice In Chains.
Un piccolo excursus storico sul grunge
Ci troviamo in un momento di passaggio, il periodo esatto in cui nacque il fenomeno del grunge. Il movimento come corrente artistica e tendenza della moda avrebbe visto la luce all’alba degli anni ’90, grazie agli articoli dei giornali (Rolling Stones, New York Times, Vogue) che iniziavano a interessarsi al cosiddetto «Seattle Sound», diffusosi così in fretta a livello mondiale.
Quello che per i protagonisti della scena era un termine sporco, di cattivo gusto (come ho già spiegato in Nevermind), all’esterno incuriosiva tantissimo. Come succede sempre quando veniamo etichettati, rinchiusi in una categoria, ci sentiamo stretti, vogliamo ribellarci e ci discostiamo dal fenomeno. Ma stavolta era qualcosa di molto più grande, impossibile da controllare e contenere.
Quando il New York Times chiamò Megan Jasper, la receptionist della Sub Pop, per scrivere un pezzo sul «Seattle grunge», le venne chiesto quale fosse il gergo giovanile che caratterizzava il fenomeno. Lei credette che fosse uno scherzo, ma quando capì che era un vero reporter decise di inventare espressioni scherzose e bizzarre. Il giornalista non obiettò, non commentò e non fece in nessun modo intendere che tutto ciò gli sembrasse assurdo. Scrisse il suo pezzo, che uscì sul giornale più famoso al mondo e a breve iniziarono a girare davvero quelle parole. Harsh Realm divenne una serie tv prodotta alla fine degli anni ’90.
Gli Alice In Chains stavano nascendo in quel momento, insieme al fenomeno «grunge» – una trovata pubblicitaria, una scena inventata, una miniera d’oro per marchi e case discografiche, a seconda di come si vuole interpretare – e stavano per entrare nella lista delle band che hanno fatto la storia della musica. Certo è che a loro meno che agli altri grunger interessava analizzare quel momento storico, tutto ciò che importava era avere finalmente la possibilità di lasciare il segno. Così, loro come molti altri, usarono quella scena come veicolo per mettere finalmente in mostra il loro talento.
Gli esordi
La loro musica si fece più seria, il sound più potente e duro, l’atmosfera mutò in toni piuttosto dark. Facelift uscì il 21 agosto 1990 per la Columbia Records, una major. È un album trainato al 50 percento da riff accattivanti e al 50 percento dalla voce corposa di Layne. In ogni traccia si percepisce il suo grido: «Guardate dove sono, ce l’ho fatta».
Iniziarono a suonare come una vera band, una band che tutti conoscevano. E soprattutto non si sognavano nemmeno di rifiutare un ingaggio (come hanno fatto i Soundgarden, ad esempio). Non importava che genere musicale suonassero le band a cui facevano da opener, a loro bastava esibirsi, e farlo davanti a un pubblico. Mettere in scena il loro spettacolo al fianco di artisti come Poison, Iggy Pop, Extreme, Van Halen, Slayer, Megadeth.
Facelift è un mix di metal e rock rabbioso alla Black Sabbath e risente molto delle loro origini. C’è già un bel mix di elementi che verranno ripresi in seguito e che determineranno la poetica della band, ma ancora non abbastanza.
Il capolavoro è Dirt
Interessante parlare di capolavoro con un album così cupo e intriso di tensione e angoscia (specchio di ciò che avveniva nella band e nei suoi membri). Ma non è certo una sorpresa che i lavori migliori nascano dalle angosce, dai turbamenti e non da stati d’animo spensierati. In quel periodo, precisamente durante il tour con i Van Halen, Layne iniziò a fare uso di droghe. L’eroina arrivò a Seattle insieme ai soldi e diventò presto un’epidemia. Fu fin troppo facile attecchire in quel luogo piovoso, monotono e deprimente.
Layne raccontò così a Bacolas della prima volta che fece uso di eroina:
Johnny, per la prima volta in vita mia mi sono inginocchiato e ho ringraziato Dio per il fatto di sentirmi bene.”
Da quel momento non smise più, e questo ebbe un forte impatto sulla band. Racconta Susan Silver, loro manager ed ex moglie di Chris Cornell, che la dipendenza di Layne rallentava moltissimo la lavorazione dell’album. Durante il tour Layne cercò di disintossicarsi, e anche numerose altre volte, ma non ci riuscì mai.
Jerry Cantrell definisce il disco come «un assalto», per il suo mix di cupezza e bellezza che a tratti può risultare sgradevole
Esattamente come Nevermind: il paragone è anche tecnico, infatti il passaggio tra Facelift e Dirt è lo stesso che fecero i Nirvana da Bleach a Nevermind. Sean Kinney sostiene invece che si tratti di un album agrodolce per lui: non solo Layne stava sperimentando le droghe, ma anche gli altri membri, ed è tutto raccontato in modo chiaro e diretto in Dirt.
Quando partì il tour, dopo la conclusione della lavorazione dell’album, le cose si complicarono ulteriormente: ai ragazzi piaceva divertirsi sulla scia degli idoli di Layne, e non è un segreto che ai Mötley Crüe piaceva vivere sul filo del rasoio. Nel frattempo il bassista, Mike Starr, se ne stava andando e fu un colpo per Jerry Cantrell, suo amico da tutta la vita. Conobbero Mike Inez durante il tour con Ozzy Osbourne e chiesero a lui di sostituire Starr. Mike chiese consiglio a Ozzy, che lo lasciò andare. Quel tour fu decisivo per il futuro della band. In due anni la loro vita cambiò radicalmente, arrivò all’improvviso tutto ciò che avevano sempre desiderato: fama, case di proprietà, fan pronti a qualsiasi follia e soldi a palate.
Sembra il lieto fine di una storia ingranata a fatica, invece è solo l’inizio della caduta
I testi di Dirt sono la testimonianza della vita da tossicodipendente, principalmente di Layne ma anche degli altri, che non erano meno inclini ai vizi. L’album inizia con Them Bones, pezzo inferiore ai tre minuti che parte con un grido secco e angosciante. Si tratta di un’intensa e violenta esplosione di chitarre, sostenuta da un intreccio di voci che dà vita a un crescendo di suoni potenti, pur non intaccando mai il timbro pulito di Layne. È questa la caratteristica della sua voce, una potenza che anche nelle tessiture più acute e più basse si mantiene limpida e roboante.
I believe them bones are me / Some say we’re born into the grave / I feel so alone, gonna end up a gig ole pile of them bones.”
«Credevo che quelle ossa fossero me / Alcuni dicono che siamo nati nella tomba / Mi sento così solo, vado a finire su un grande mucchio di quelle ossa»: così inizia il pezzo e così finisce, ripetendo come una sorta di litania funebre quanto la solitudine sia radicata in lui insieme alla sensazione di essere sempre più vicino a diventare un misero mucchietto d’ossa.
Assistiamo alla prova riuscita di un rock classico e duro con Dam That River, brano che narra di una brutta discussione tra Sean e Jerry, sfociata in una lotta fisica. Nella raccolta Music Bank si racconta che Jerry ha scritto questo brano dopo che Sean lo ha colpito in testa con un tavolino da caffè. Sean ha ovviamente scritto la parte di batteria, sembra invece che Layne non abbia contribuito alla composizione.
Con un riff di basso inizia Rain When I Die, un pezzo in 6/4 che disorienta. Entrano insieme batteria e chitarra, quest’ultima impegnata in un’acrobazia distorta da brividi – nel senso che riempie di inquietudine. La voce si unisce dopo un minuto con un grido sofferente e rassegnato, com’è anche il testo, che cerca di spiegare cosa si provi in quella pelle. La pelle che ricopre un involucro fatto di sofferenza, depressione e dipendenza. Una creatura avvolta dai suoi demoni, avviluppata da tentacoli impossibili da districare.
Sickman, dai toni scuri e metal, ricorda molto una canzone dei Soundgarden. È composta da poliritmie e accordi dissonanti, la voce sostiene il tutto con un canto sguaiato in principio per addolcirsi nel ritornello. La sezione ritmica resta violenta ma anch’essa rallenta un po’. Un cambio di marcia che serve a dare maggiore enfasi alle parole pronunciate da Layne, un presagio nefasto che non lascia spazio a possibilità di salvezza.
I can feel the wheel but I can’t steer / When my thoughts become my biggest fear / Ah, what’s the difference, I’ll die / In this sick world of mine”
(Posso sentire il volante ma non riesco a sterzare / Quando i miei pensieri diventano la mia più grande paura / Ah, qual è la differenza, io morirò / In questo mio mondo malato)
Rooster è stato scritto da Jerry Cantrell ed è un brano che parla dell’esperienza del padre in Vietnam. Il narratore della storia è proprio il padre, Cantrell ha immaginato che fosse lui a parlare. Non è chiaro se la scelta della prima persona sia una strategia per trasmettere al meglio quelle sensazioni devastanti, oppure un tentativo di catarsi da parte del chitarrista. Per me, si tratta di entrambi. Quando infatti Cantrell parla di questo brano, ricorda il brutto momento in cui lui e la sua famiglia sono stati costretti a lasciare il padre, e poi il momento in cui l’ha rivisto e gli ha suonato questo brano. Il momento che li ha fatti riavvicinare.
Junkhead parte non solo con la sezione ritmica al completo, ma anche con il grido di Layne che si esaurisce non appena entrano in scena i versi più diretti che abbia mai scritto:
Seems so sick to the hypocrite norm / Running their boring drills / But we are an elite race of our own / The stoners, junkies, and freaks / Are you happy? I am, man.”
(Penso di essere stanco delle regole ipocrite / e delle loro esercitazioni noiose / Ma noi siamo una razza d’élite solitaria / Tossici, drogati e svitati / Sei felice? Lo sono, amico)
E ancora: «You can’t understand a user’s mind», non puoi capire la mente di un drogato. Parole e musica sono confezionate ad arte, i versi sono infatti accompagnati da un ritmo lento ma violento, e da una melodia cantilenante perfetta per esprimere il senso di benessere momentaneo che prova il drogato, come un bambino cullato dalla madre. Un senso di protezione, un abbraccio caldo e sicuro.
Ma la caduta è appena iniziata. Con Dirt si comincia a entrare nel loop di frustrazione, angoscia e depressione, illustrato in modo molto vivido già dai riff di chitarra ripetitivi e il ritmo più veloce. Il testo alterna versi in cui si contempla il suicidio e versi in cui è molto probabile che Layne si rivolga direttamente alla sua carceriera. E le sta chiedendo di ucciderlo.
God Smack è ancora più veloce. Le sonorità metal e la voce tremolante di Layne sono impressionanti, è come assistere di persona alla crisi di un tossico. La successiva Iron Gland fa un uso breve della voce di Tom Araya degli Slayer, anzi della sua risata, ed è un intermezzo musicale che ha il compito di precedere gli ultimi pezzi presagendo un finale non molto ottimistico.
Hate To Feel e Angry Chair sono brani paranoici sia musicalmente che liricamente. La prima punta su un intreccio di voci che si accavallano e si montano sopra senza un ordine, per finire con un assolo di chitarra distorto e graffiante. La seconda invece è un canto pigro, costruito sulla stessa nota ripetuta tranne per qualche variazione che scuote all’improvviso. Nel ritornello si affaccia una melodia che però non ha niente di rassicurante, anzi, non fa che confermare il senso di rassegnazione.
Loneliness is not a phase / Field of pain is where I graze / Serenity is far away / Saw my reflection and cried / So little hope that I died”
(La solitudine non è una fase / Il campo del dolore è dove pascolo / La serenità è distante / Guardo il mio riflesso e piango / La piccola speranza che ho fatto morire)
Ora arriva una ballata, la quiete prima della tempesta. Con Down in a Hole le voci di Layne e Cantrell si intrecciano alla chitarra formando una melodia ipnotizzante e trascinante, mentre la batteria segna un tempo più lento, un ritmo che si assesta. Ormai la salvezza non è più un’opzione, quindi si può soltanto cantare un inno alla resa.
Down in a hole and I don’t know if I can be saved / See my heart / I decorate it like a grave / Oh, you don’t understand / who they thought I was supposed to be / Look at me now I’m a man who won’t let himself be”
(Giù in questo buco e non so se potrò essere salvato / Guarda il mio cuore / l’ho decorato come una tomba / Non si capisce chi pensano che io debba essere / Adesso guardami, sono un uomo / che s’impedisce di vivere)
Per finire, Would è un brano già apparso nel film Singles ma inserito sapientemente a chiusura di questo capolavoro, per dare l’ulteriore conferma che i giochi ormai sono finiti. C’è poco da sperare ormai, l’errore è stato fatto e non c’è modo di tornare indietro. Non c’è modo di uscire dall’oscurità, si può soltanto trasformarla in melodia.
Into the flood again / Same old trip it was back then / So I made a big mistake”
(Ancora nel diluvio / Qualche vecchio viaggio era stato fatto / Allora ho fatto un grosso errore)
La fine degli Alice In Chains
Al termine di ogni tour c’è un momento di pace, di calma piatta, solo che arriva sempre troppo in fretta. Un attimo prima sei in giro per il mondo, sempre in viaggio, su palchi calcati dalle più grandi band del mondo, l’attimo dopo sei di nuovo a casa, là dove è iniziato tutto. E tu neanche vorresti ricordarlo com’è iniziato, perché ora ti senti bene, anzi alla grande. Invece sei di nuovo nella tua città e devi riabituarti alla vita che non hai mai voluto. La routine del tour è difficile da scardinare, fortunatamente adesso c’è la droga che ti aiuta a superare i momenti di angoscia, e ora che sei solo e hai così tanto tempo libero quei momenti sembrano infiniti.
Così le cose sono peggiorate, e l’unico modo di star bene per Layne era fare musica. C’è stato un altro Ep, poi Mike McCready l’ha trascinato in studio per lavorare con lui, poi è uscito il terzo disco, un altro da primo posto in classica. Realizzarlo fu una pena e un errore per la salute di Layne, che per riuscire nell’ennesimo tentativo di ripulirsi avrebbe dovuto restare lontano dalla scena per un po’. Il problema era che non voleva fermarsi, non poteva. Scrivere e cantare era tutto ciò che lo rendeva felice, prendersi una pausa non era un’opzione. Ma quando tutto è precipitato, non solo per colpa di Layne, la band ha deciso di sciogliersi. Layne frequentava una ragazza con la sua stessa dipendenza, poi lei è morta e lui si è isolato dal mondo.
Il resto è una triste storia
Dei beniamini del grunge è rimasto solo Eddie Vedder, e lui questa pressione addosso la sente tutta. C’è chi dice che Eddie si è salvato per pura fortuna, chi sostiene che lui fosse un privilegiato, perché è cresciuto fuori da Seattle, a San Diego. Non è qualcosa che si può sapere con certezza, l’unica cosa certa è che tutti loro sono/erano personalità incredibilmente sensibili. E finché possono/hanno potuto, hanno dato tanto a chi li circondava, a chi li amava.
Layne è ricordato da tutti come una persona buona, modesta, passionale. Noi lo ricordiamo soprattutto come voce di grande talento e performer di estremo fascino. Come artista straordinario che ha dato vita a un altro capolavoro del grunge: Dirt.
(Fonte: Greg Prato, Grunge is dead. Storia orale del grunge, Odoya, Bologna, 2021)