La storia che vi raccontiamo oggi è ambientata nella profonda America degli anni Cinquanta, quando il rock’n’roll non era ancora nato. È una storia tragica, quella dell’ultima notte di Hank Williams.
I fari della Cadillac tagliano la notte del Tennessee. La neve scende dandoci dentro di brutto, ma Charlie non ha intenzione di fermarsi. Il ragazzo deve rispettare una consegna che pare impossibile: per la mattina dopo deve essere a Canton, Ohio. Non aspettano lui, no. Tutti aspettano il grande Hank Williams, il cantante che ha rivoluzionato il country.
C’è un problema: Hank adesso giace sul sedile posteriore della Cadillac color Baby Blue e non pare nella sua forma migliore. Charlie, che si chiama Carl Curr, è stato assunto come autista lì per lì, il giorno prima, per portarlo a Canton in tempo per la sera. È il 31 dicembre e tutta l’America vuole festeggiare alla grande.
Hank ha già iniziato da un po’ a buttare allegramente all’aria il successo: a 30 anni, per molti è già un uomo finito. Hiram King, così si chiama davvero, è un bianco nato col blues e quell’alternanza schizofrenica tra entusiasmo e tristezza ha imparato a trasformarla nella sua forza vitale. L’Alabama di fine anni Venti, quella in cui Hank è venuto su, è quella della Grande Depressione.
Non una bella situazione, specie se tuo padre all’improvviso ha una paralisi e la famiglia si deve arrangiare con la pensione da veterano. La mamma trova lavoretti qua e là, al piccolo Hiram non fa mancare niente. L’incontro che gli cambia la vita, il primo almeno, è quello con la chitarra. Poi quello col blues, che gli appare nella persona di Rufus Payne, un nero che suona sul marciapiede.
Il blues e il country si erano sempre guardati da lontano, quasi con sospetto. Hank li farà incontrare, come una quindicina d’anni dopo accadrà con Elvis Presley, in modo ancora più esplosivo. Il successo è fenomenale, il Grand Ole Opry, la massima istituzione della musica country, accoglie da trionfatori lui e i suoi Drifting Cowboys.
Hank, però, conosce subito la maledizione che si accompagna spesso al successo. Specie se sei nato col blues dentro. Quand’era ragazzo, Hiram non ha imparato solo a suonare la chitarra, prima da zia Alice e poi da Rufus. Un cugino, che tutti chiamano J. C., gli insegna a trovare conforto nel whisky, bevuto se possibile a secchiate.
Nonostante tutti lo vogliano, Hank si porta dentro la sua inquietudine in giro per gli states. Il suo dolore non è solo dentro l’anima fragile che gli è toccata in sorte, ma anche – più banalmente – nella schiena. Lui racconta che se l’è giocata venendo disarcionato qualche volta di troppo mentre montava al rodeo. Vero? Falso? Non si sa, certo è che dalla nascita soffre di una meno suggestiva spina bifida che lo fa dannare.
Dopo la chitarra e il whisky, Hank fa il terzo incontro della sua vita, forse quello decisivo, con la morfina. La droga lo aiuta a stare in piedi sul palco, una sera dopo l’altra, duecento volte all’anno, un bis via l’altro. Fino a quando l’abbraccio caldo della sostanza diventa quello freddo dell’abisso. Hank è né più né meno che un drogato, e della peggior specie. Hank è un tossico che ha i soldi per accarezzare il suo demone, due caratteristiche che non portano mai a nulla di buono.
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Roy Acuff, grande del country e idolo giovanile di Hank, non gli fa mistero di quello che pensa di lui. No, il vecchio Roy lo prende da parte e gli fa: “”Tu hai una voce da un milione di dollari, ragazzo, ma un cervello da dieci centesimi!” La sentenza di Roy pesa come una profezia di Cassandra, e Williams gli dà lo stesso peso. In breve lo licenziano dalla radio dove lavora, il Grand Ole Opry – dove ha il record dei bis richiesti – lo scarica.
Lui intanto si sposa con Audrey, ma la donna si trova nel letto due presenze troppo ingombranti: l’alcol e la morfina. Nel ‘52 si separano, mentre Hank affonda sempre più tra dipendenze e depressione. La carriera solista, col nome di Luke The Drifter, stenta a decollare, il suo carattere da attaccabrighe non lo aiuta di certo.
Alla fine, anche i Drifting Cowboys lo mollano.
Le paghe per le serate sono sempre altissime, eppure non bastano a finanziare le smodate quantità d’alcol con cui Hank si sta uccidendo a nemmeno trent’anni.
Quel pomeriggio dell’ultimo dell’anno, mentre Charlie e la Cadillac lo stanno portando a Canton, Hank è stanco. Avrebbe bisogno di riposo, di dormire per un mese filato e di qualcuno che lo aiuti a ripulirsi il sangue e l’anima. Invece lo aspettano per l’ennesimo concerto, la gente si sta riprendendo dalla guerra e vuole divertirsi.
La neve li sorprende, quasi un segno del destino che invita il cantante a fermarsi. Hank, però, non è tipo da farsi condizionare. Dice a Charlie di fare dietrofront e di puntare sull’aeroporto di Knoxville, per prendere il primo aereo disponibile e arrivare in tempo per accordare la chitarra e darci dentro come al solito. Gli va bene, a quel diavolo. Saltano su uno di quei vecchi quadrimotore a elica in mezzo alla bufera, roba da farsi il segno della croce con tutt’e due le mani.
E invece, l’aereo decolla, fa un paio di giri sulla città e poi il pilota decide che è troppo pericoloso e torna alla base. Forse salva la pelle ai passeggeri, ma non a Hank, che di lì a poche ore sarà morto. La Cadillac punta il cofano verso un albergo a ore. La neve è troppa, le strade impraticabili, l’Ohio lontano. Hank Williams, a malincuore, deve rinunciare a quei maledetti soldi promessi dal manager e chiama per annullare il concerto.
Quelli s’incazzano, manco che la neve l’avesse mandata giù lui di proposito, e gli fanno capire che farà meglio a essere a Canton almeno per il matinée con cui il locale vuole aprire il 1953. Hank biascica un sì, butta giù la cornetta e fa a malapena in tempo a raggiungere la sua stanza. Sta male, ha le convulsioni, la febbre. Il suo fisico gli presenta il conto tutto in una volta.
Charlie vuole riposare qualche ora e ripartire, sperando che la neve dia loro tregua, ma Hank sta troppo male. Riesce a trovare un dottore, nulla più che un segaossa di paese, e lo trascina in piena notte all’albergo. “È il grande Hank Williams, quello che sta male, – gli dice – non l’ultimo dei pezzenti di questa fottuta città!”
Quello lo visita controvoglia e dio sa perché gli fa una bella iniezione: due dosi dell’amata morfina e una di cobalamina. I comuni mortali la chiamerebbero vitamina B12, roba che presa da sola non farebbe ciao ciao a un bambino. Mischiata con la morfina, prende il buon vecchio nome di “mix letale”. Il dottore dice a Charlie che il suo amico non ha niente di che, deve solo riposare, dormire e tornerà più in forma di Joe Di Maggio.
Charlie allora si riposa un po’ e – quando vede che ha smesso di nevicare – decide di ripartire. I soldi, in fondo, se li vuole guadagnare pure lui e ha promesso ad Hank che la mattina dopo saranno a Canton. Chiama due facchini e si fa aiutare a portare il grande Hank Williams, che pare ancora dormire della grossa, in macchina come un tappeto vecchio. Lo sistemano sul divano posteriore della Cadillac, che pare quello di una casa colonica, con una coperta e tanti saluti. Si riparte.
Curr ce la mette tutta, non nevica più ma il tempo fa sempre schifo. Le strade sono ghiacciate e la foschia non gli fa vedere un accidente. A un certo punto la sta per fare grossa e per poco non fa secca una pattuglia della stradale. Quelli la prendono male e lo portano in centrale. Lui si difende: “Devo portare il grande Hank Williams a un concerto in Ohio”, e quelli gli danno un’occhiata sul famoso sedile dietro.
Charlie ripete la diagnosi di quel fenomeno di medico e i poliziotti lo lasciano andare col nome di dio. E lui lo porterebbe pure in Ohio, guidando una notte intera e facendosi dare il cambio per poche ore da un tipo che fa l’autostop, ma quando il diavolo ci mette la coda non ce n’è per nessuno. Manco per Hank Williams.
All’alba, Charlie si volta e vede che la coperta si è spostata. Si ferma sul ciglio della strada e scende, non vuole che Williams prenda freddo. Quando lo tocca, però, “freddo” è proprio la parola che gli viene in mente. Hank Williams è gelato come se l’avessero appena tolto dal freezer, una temperatura che, pur nella sua scarsa esperienza medica, Curr non riesce ad accostare alla vita. Preso dal panico, corre come un pazzo fino a quando non trova un ospedale a Oak Hill, a sei miglia.
Al pronto soccorso, però, possono solo fargli notare che in quella notte maledetta si è portato appresso per le strade di un paio di stati il cadavere di Hank Williams. Il più grande cantante country d’America è morto d’infarto, forse quando era ancora in albergo. La dose di morfina e vitamina B12 che il medico gli aveva iniettato avrebbe fatto secco un cavallo da corsa.
I’ll Never Get Out of This World Alive uscirà beffardamente cinque giorni dopo la morte di Hank, lo stesso in cui nasce Jett, sua figlia illegittima. Sul sedile della Cadillac color Baby Blue trovano qualche lattina di birra e un pezzo nuovo di zecca, mai inciso: Then The Fateful Day Came.
Che suona un po’ come “Dunque il giorno fatale è giunto”.
La vita di Hank Williams finisce così.